Questa mappa (opera di Nikolaj Cyon) cerca di immaginare come sarebbe oggi l’Africa se non fossero mai avvenuti i traumatici eventi della tratta degli schiavi e del colonialismo.
Al di là dell’esercizio di “storia ipotetica”, mi sembra una provocazione utile per rappresentare il percorso mentale che suggerisco a chiunque si occupi di Africa oggi, nel 2018:
DECOLONIZZARE LO SGUARDO
Anzichè perdere tempo a discutere tra Afro-pessimisti e Afro-ottimisti suggerisco quattro azioni, molto concrete, per entrare in una relazione meno banale con il continente che, volenti o nolenti, sarà sempre più importante nel futuro di tutti.
1. Leggere gli storici africani
Come diceva il caro vecchio Tucidide:
Bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro
Qualunque sia il motivo per cui ti interessi di Africa, il mio consiglio è quello di leggere molto. Lo trovo tanto importante quanto viaggiare.
In questo post ho provato a stendere una personalissima lista di libri “irrinunciabili”.
Per approfondire un campo cruciale come la storia consiglio due ulteriori letture:
- Storia del continente africano di José do-Nascimento, un libretto tanto agile quanto denso, realizzato dagli amici di African Summer School
L’Africa a testa alta di Cheikh Anta Diop, dedicato alla figura del coraggioso storico senegalese. L’autore è Jean-Marc Ela, a sua volta tra i più grandi filosofi e teologi africani.
Solo così potrai renderti pienamente conto della saggezza del proverbio:
Finché il leone non avrà una sua storia, il cacciatore sarà sempre l’eroe
2. De-esoticizzare il linguaggio
Proprio a causa dei pregiudizi etnocentrici che ci portiamo dietro, i termini del linguaggio (e del pensiero) cambiano con una certa facilità quando si parla dell’Altro per eccellenza: il nero africano.
Il blog Arising Africans schematizzava provocatoriamente la questione così:
Si può essere più o meno d’accordo su quanto siano azzeccati i singoli esempi.
Il punto è cercare di rendersi conto di quanto sia facile usare parole coniate ad hoc per un luogo che diventa per natura differente ed “esotico”.
Il punto chiave è uno: vuoi capirci qualcosa? Ti piacerebbe guardare al continente per un percorso di lavoro o per sviluppare progetti di business?
Non imboccare “scorciatoie” e fai lo sforzo di occuparti dei paesi africani con la stessa serietà e impegno che metteresti con la Cina o la Germania.
Vuoi andare avanti con gli schemi mentali di cent’anni fa?
Temo che, ad un certo punto, ti schianterai contro un muro. Chiamato realtà.
3. Abbandonare la pretesa di “salvare” qualcuno
Tanti giovani (e meno giovani) si avvicinano all’Africa con il desiderio di “aiutare”/”dare-una-mano”.
Un sentimento nobile che spesso cela, senza alcuna consapevolezza, convinzioni riassumibili nel “complesso del Salvatore Bianco“.
Si arriva così a pensare che “in Africa” non valgano le più elementari regole di buonsenso che, in patria, ci suggeriscono quantomeno prudenza e cautela prima di credersi in grado di “aiutare” una persona in difficoltà (ad esempio un parente, un vicino di casa o un senzatetto in strada).
Per quale motivo “in Africa” non dovrebbero servire competenze ma solo motivazione?
Per quale strana coincidenza astrale, pur essendo stranieri e per questo ignoranti del contesto socio-culturale, potremmo “fare la differenza” nelle vite di persone vulnerabili che incontriamo per qualche giorno?
Attenzione, non sto dicendo che sia sbagliato fare un’esperienza di volontariato!
Prendi solo il coraggio (e il tempo) di capire le radici culturali e storiche che si celano dietro questo modo di pensare e renditi conto di come, ad ogni latitudine, nessuno può “salvare” nessuno.
Anzi, voler “salvare” (o “cambiare”) l’altro è un atteggiamento che genera, di solito, risentimento nell'”oggetto” di tante attenzioni.
Quello che si può fare, a Nairobi, Dakar come a Bologna o Caltanissetta è condividere esperienze, tempo, idee. Costruire relazioni che, in definitiva, siano proficue per tutti. Ma per questo occorre riconoscere all’altro il diritto/dovere di parlare e fare lo sforzo di ascoltarlo.
Certamente è molto più comodo sapere già tutto. Poi però non lamentiamoci se “i progetti” vanno male o, peggio, si finisce vittima di truffe e tradimenti.
4. Mandare in pensione il “Buon Selvaggio”
Decolonizzare lo sguardo significa rinunciare per sempre al mito, tanto affascinante quanto falso, del “Buon Selvaggio“. L’altro che sarebbe buono in quanto più vicino alla Natura non corrotta dalla modernità.
Potrà sembrare banale ma non lo è: in ogni popolazione ci sono persone oneste e disoneste, intelligenti e stupide, ambiziose o sfiduciate.
E ogni cultura umana tende ovviamente ad essere etno-centrica, ovvero portata a giudicare gli “stranieri” a partire dai suoi presupposti di identità culturale.
Anche “in-Africa”!
Se non lo capisci, ancora una volta, sarà facile avere esperienze spiacevoli, amplificate dai tanti possibili equivoci interculturali (che ho provato a riassumere in questo post).
Insomma, provando a decolonizzare il nostro sguardo potremmo addirittura arrivare a renderci conto che l’altro è, allo stesso tempo, uguale e diverso da noi.
Riuscissimo a farlo davvero, ci faremmo del bene.
Ci “aiuteremmo a casa nostra”.
Apriremmo nuove prospettive per i nostri percorsi personali e professionali, così affamati di senso, e anche per il vecchio e caro Belpaese tragicamente in cerca di futuro.
Ne abbiamo piuttosto bisogno in questo frangente storico.
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(PS. non ho detto più facile!)