Su VadoinAfrica, per scelta, non mi occupo di cronaca. Non inseguo le news italiane né quelle africane. Non guardo un TG da anni e consiglio a tutti di prestare attenzione al malessere provocato dalla cosiddetta “obesità informativa” in cui siamo immersi.
Detto ciò, in questo particolare frangente, non posso nascondere la mia preoccupazione per le sorti dell’Italia. Un paese dove ogni campagna elettorale sembra la peggiore.
Ma poi arriva la successiva.
Quella 2018 è uno spettacolo osceno di aspiranti pifferai magici impegnati ad aizzare un elettorato sfiduciato, frustrato e analfabeta funzionale agitando un spauracchio dell’immaginario occidentale:
LA PAURA PER L’UOMO NERO
Lo scenario macroeconomico italiano non è incoraggiante. Non ci vuole una sfera di cristallo per immaginare cosa succederà quanto si rialzeranno i tassi d’interesse ai minimi storici da anni. Il paese si avvia di fatto all’implosione demografica.
Ma si preferisce prendere un capro espiatorio, promettere soluzioni a suon di slogan e far credere di avere il potere di riavvolgere il nastro della storia e tornare magicamente agli anni ’60.
Aprire nuove prospettive di senso è una capacità rara di questi tempi.
È la dote che apprezzo in Fortuna Ekutsu Mambulu, pensatore del cosiddetto “Rinascimento Africano” oltre che amico che stimo per la serietà e l’impegno. Oggi lo ospito per parlare di futuro dell’Italia.
Futuro che, volenti o nolenti, è strutturalmente legato a quello del continente africano.
Grazie per aver accettato il mio invito! Prima di iniziare ti chiederei di presentarti
Grazie a te Martino per questa opportunità. Mi piace definirmi un costruttore di ponti e acceleratore di cambiamenti. Nato e cresciuto a Kinshasa (RD Congo), vivo in Italia dal 2002 dove mi sono laureato in Economia.
Sono stato editorialista economico su Afriradio prima di fondare African Summer School, percorso di formazione per l’imprenditoria e la cultura africana arrivato alla quinta edizione.
Ho curato la pubblicazione di “Storia del continente africano. Una lettura sintetica e razionale”, il primo libro italiano che presenta la storia millenaria del continente da un punto di vista africano, e la campagna “Anche le immagini uccidono” contro l’abuso dell’immagine della donna e del bambino neri nelle campagne di fundraising.
Sono membro del consiglio direttivo di REDANI, consulente, formatore e responsabile dello sviluppo progetti per SIGNIS.
Qual è la cosa più urgente da fare per superare le gravi tensioni che vediamo?
Bisognerebbe indire con urgenza degli “Stati generali dei media”. La Carta di Roma è sistematicamente violata quando si parla di immigrazione. C’è un’ignoranza dilagante, che riguarda tutti i ceti sociali e le professioni, inclusi i giornalisti.
Le percezioni, differenti dalla realtà, finiscono per sostituire la realtà stessa. Le sfide, enormi, sono amplificate dal potere dirompente dei social. Le notizie circolano e diventano virali senza essere verificate.
A questo fenomeno, globale, si aggiunge una regressione culturale propria dell’Italia di questi ultimi anni. Anziché entrare nel merito e provare a discutere di temi decisivi come giovani, investimenti e tecnologia, si resta paralizzati a parlare per ore di migrazioni.
C’è infine un’enorme questione etica e morale. Scarso senso civico, corruzione, desiderio di diritti senza doveri.
Su questi fronti penso che l’unico orizzonte sensato sia quello di lungo periodo, focalizzandosi sull’educazione delle nuove generazioni.
Quali sono, a tuo giudizio, i principali problemi nell’attuale gestione dei flussi migratori?
I migranti in Italia sono arrivati in una società che già funzionava a fatica. Di conseguenza sia l’informazione sia la gestione operativa del fenomeno sono state caotiche, insane e a tratti tragiche. E si è aperta la porta alla piena strumentalizzazione.
I flussi sono andati a sommarsi a fatiche pre-esistenti alimentando dinamiche economiche malate. Troppe (non tutte, per fortuna) cooperative si sono messe a “gestire” il fenomeno con modalità che, alla fine, producono solo frustrazione.
La gestione è stata così caotica perché, in definitiva, in Italia manca una visione del futuro. Se non c’è un pensiero sui giovani in generale, come possiamo pretenderne che ce ne sia uno per i (giovani) migranti?
Di fronte al disagio sociale ed economico che investe tanto i cittadini quanto gli stranieri residenti da tempo non sono stupito dall’attuale, gravissima, situazione. Occorre prenderne atto e lavorare seriamente per superarla.
Proprio perché non esistono bacchette magiche servirebbe molta responsabilità politica. Visto che manca, spero in una forte azione della società civile.
Le risposte simboliche come le manifestazioni di oggi sono importanti per dimostrare che esiste ancora un corpo sociale sano, che prova a far andare avanti il paese nonostante tutto. Questa parte sana dell’Italia deve alzarsi e lottare.
Non solo contro il razzismo. Ma anche contro il nepotismo, il clientelismo e la corruzione che bloccano il grande potenziale di questo paese. Quando sono arrivato in Italia fui molto colpito dall’intensità delle manifestazioni contro la guerra in Iraq.
Oggi le notizie di guerra sono accettate come ordinaria amministrazione. E questo è un segnale grave in un paese di grande tradizione democratica com’è l’Italia. Ritrovare il senso della lotta, sapendo coniugare diritti e doveri, è l’unico modo per mandare un forte messaggio alla classe politica a cui fa comodo che la gente sia stufa, voti per slogan o non voti del tutto.
Solo con una maggior partecipazione potremo affrontare le sfide future, tra cui anche il tentativo di gestire le migrazioni e di incidere gradualmente sulle loro cause profonde.
Quale ruolo hanno le diaspore per evitare che l’Italia, in preda alla paura, si chiuda su se stessa?
A mio parere le diaspore hanno l’urgenza di organizzarsi. I primi arrivati, negli anni ’70, erano soprattutto studenti universitari e non hanno vissuto i nostri problemi. Ai tempi furono invitati ad “integrarsi” nelle associazioni già esistenti.
Ora è il momento di creare qualcosa di nuovo per rispondere a queste sfide di immaginario collettivo. Questo è anche il modo per poter esprimere al meglio la nostra voglia di contribuire alla partecipazione del paese.
Non ci organizziamo per “farci accettare”. Ma perché vogliamo bene all’Italia, dove lavoriamo, paghiamo le tasse e cresciamo i nostri figli. E perchè, allo stesso tempo, non possiamo nè vogliamo dimenticare i nostri contesti di origine.
Di frequente i media chiamano “pinco-pallino” in TV solo perché ha la pelle scura. Persone spesso senza una voce autorevole e competente che ottengono il risultato di rinforzare nell’opinione pubblica gli stereotipi molto diffusi sui neri che sarebbero “fannulloni” e “incapaci” che “non sanno nemmeno esprimersi”.
Dobbiamo organizzarci per dare dei messaggi coerenti che siano utili al futuro dell’Italia.
Tra questi sicuramente parlare delle cause nascoste delle migrazioni. L’opinione pubblica non le conosce e ne parla in maniera deresponsabilizzata del tipo “eh, noi andiamo li a rubare le loro risorse…” o si limita a dire “loro sono poveri e per questo vogliono venire tutti da noi”.
Occorre fare dei passi avanti per il bene di tutti.
Come uscire dall’ipocrisia del mantra “aiutiamoli-a-casa-loro” che sembra bloccare ogni riflessione?
Il problema dell’Africa è in primo luogo politico, non solo economico! Come sai bene nel continente c’è un grande dinamismo. I giovani hanno voglia di fare, di mettersi in gioco e di rischiare.
Ma gli Stati e le istituzioni sono spesso molto problematici.
In Togo sono mesi che la gente è in piazza. Ma con chi possono entrare in relazione in Europa? Quale ONG collabora con i congolesi che rischiano ogni giorno la vita per creare spazi di libertà e democrazia?
Gran parte della cooperazione fa cose che suppliscono a debolezze degli Stati. Piuttosto bisognerebbe lavorare per rafforzare le istituzioni africane e renderle maggiormente al servizio dei cittadini.
Capacity building non per portare ideologie esterne ma per ridurre la frustrazione e dare spazio a chi già si impegna e crede nelle potenzialità del suo paese. Un cammino verso una graduale risoluzione delle cause anzichè ostinarsi a tamponarne le conseguenze.
Ritengo essenziale per questo che si sviluppi un rinnovato sguardo internazionale nelle forze politiche e sociali del Nord del mondo per poter fare passi avanti nel ridurre la violenza del Nord verso il Sud.
Questo potrà avvenire grazie a formazioni politiche dove la diaspora abbia un ruolo da protagonista e non da comparsa.
Qualcuno dirà “ah, ma tanto è tutto deciso dagli USA e dalla Cina”. Oppure “è un’utopia”.
Certo, rispondo, ma anche no.
L’Europa, seppur lentamente, si sta costruendo. E le diaspore potranno inserire la pace e lo sviluppo comune come punti chiave delle agende politiche.
Anzichè averne paura, la politica dovrebbe rendersi conto della ricchezza del valorizzare le differenze. Penso che tutti i popoli abbiano il diritto di stare bene dove hanno sempre vissuto. Ma credo anche che tutti gli individui debbano poter avere il diritto di spostarsi dove pensano di potersi realizzare.
Un giorno arriveremo a questo. Ma solo quando cambierà l’assetto macroeconomico internazionale.
Per esempio quando, con la fine del petrolio, le fonti di energia diventeranno diffuse. Chi è onesto si rende conto che quelle occidentali sono società opulente ma dove la maggioranza della gente ha paura e non vive affatto bene.
Non si può andare avanti con gli schemi del passato, che hanno perso alla prova dei fatti. Allo stesso tempo credo che, così come abbiamo visto “sparire” dalle paure collettive gli albanesi o i marocchini così, poco a poco, diventeremo più normali anche noi africani neri.
Pensare a questo può darci speranza. Anche se con il nostro fenotipo siamo un po’ più riconoscibili!
Certo, entrambi questi Paesi hanno imboccato cicli economici e sociali virtuosi per cui tanti ex immigrati sono rientrati avviando imprese che funzionano, spesso creando valore anche per l’Italia. Esistono anche significative comunità italiane residenti in questi Paesi.
Nulla di diverso da quello che gradualmente avverrà anche nel resto del continente africano.
Cosa consigli a imprenditori e manager che lavorano con l’Africa?
Troppo spesso l’Africa è l’ultima scelta dopo la sconfitta in Italia. Non riesco a far nulla allora prendo e vado in Africa. Beh, questo modo di pensare porta solo a ulteriori frustrazioni e fallimenti.
Il paradigma che consiglio a chiunque è quello del Rinascimento Africano.
Chi vuole avvicinarsi all’Africa dovrebbe decolonizzare il proprio sguardo e vederla sì come una terra di opportunità ma anche come una società che ha bisogno di ritrovare sé stessa dopo una lunga parentesi di alienazione.
Recuperare le capacità di produrre in maniera autonoma gli elementi materiali e immateriali della propria evoluzione verso la modernità.
Se ci inseriamo in questo orizzonte, di far rinascere l’Africa anziché di “svilupparla”, tutto diventa più semplice.
Anche la cooperazione, anche l’imprenditoria, che possono entrambe essere “amiche” del continente dando frutti inattesi. Perché l’Africa sta attraversando un momento storico particolare, dovuto in primo luogo all’espansione demografica.
Andare a vivere in Africa può fare la differenza, nella vita propria e altrui, se si ha la mentalità dell’artigiano: creare qualità e valore con una forte attenzione per il contesto locale.
Fuori dalla schizofrenia predatoria e dai deliri del “Salvatore Bianco”.
Questa è una prospettiva adatta a tutti: africani, italiani, seconde generazioni, coppie miste.
Andare in Africa per scelta: professionale o di vita.
Vedo che mi piace vivere lì, cerco un lavoro in loco e sviluppo prospettive di senso per entrambi i contesti.
L’Africa sta diventando un interessante orizzonte di realizzazione personale, abitando gli spazi economici, culturali, sociali e, perchè no, politici.
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