Vuoi esportare Made in Italy in Africa? Ti piacerebbe vendere prodotti o servizi nel continente?
Sei in buona compagnia, ma occorre fare attenzione.
Lo scorso anno, i flussi commerciali tra Italia e Africa hanno superato i 19 miliardi di euro, pari al 4,3% del commercio italiano nel mondo. E i primi due mesi del 2020 vedevano una crescita del 26,9% per le esportazioni italiane a Sud del Sahara.
Gli effetti di Covid-19 hanno frenato la crescita delle economie africane, ma i trend demografici e sociali lasciano pochi dubbi rispetto ad una ripresa nel medio-lungo periodo.
Resta un fatto.
Tra il pensare “mi piacerebbe esportare in Africa” e incassare la prima fattura c’è di mezzo il mare.
Non tanto il Mediterraneo, quanto una serie di miti che rischiano di mandarti fuori strada e farti perdere tempo e opportunità.
Vediamoli insieme.
1. Il “mercato africano”
Nonostante le dinamiche di integrazione continentale, l’Africa NON è affatto un solo mercato.
Anche se viene usato il termine “Africa” (in parallelo a Cina, India, USA, Turchia), non bisogna dimenticare che si tratta di un continente, composto da 54 Paesi.
Tranne rare eccezioni (es. Sudafrica, Nigeria, Marocco, Egitto) i mercati africani sono piccoli e frammentati.
Può aiutare guardare al continente partendo dalle cinque aree dell’Unione Africana (la sesta è la diaspora africana nel mondo):
Ad ogni modo, ciascuna di queste regioni resta un mondo assai diversificato. Tanto a livello sociale (lingue, religioni, culture) quanto economico, normativo e logistico.
Per intuire gli ostacoli su questo ultimo fronte, non dimenticare che costa meno spedire un container Shangai-Dakar (10.600 miglia nautiche) che Abidjan-Dakar (1160 miglia).
Identificare il Paese/regione prioritario per esportare in Africa è quindi essenziale.
Per analizzare la pre-fattibilità del tuo progetto, ti suggerisco di scrivere innanzitutto un post nel gruppo Facebook gratuito.
2. Vendo a catalogo…


Se c’è un errore che vedo fare da tante, troppe, aziende italiane è pensare di poter esportare nei mercati africani stando comodi nei propri uffici. Limitandosi a girare via mail cataloghi, volantini e inviando proforma.
Un aspetto che accomuna tutti questi diversi mercati è l’enorme difficoltà di una gestione a distanza.
Sono mercati dinamici ma ancora poco strutturati. Dove la relazione personale guida il business e non viceversa. Una modalità di agire, peraltro, che consente di mitigare il rischio dalle costanti possibilità di truffe e raggiri.
Come sottolinea Michele Baldini, fondatore di ZNZ Advisors con sede a Zanzibar (Tanzania):
in questi mercati è essenziale conoscere di persona i tuoi potenziali clienti e distributori. Fargli toccare e vedere la merce. Non c’è spazio per vendite “a catalogo”.
Costruire partnership solide con distributori locali, prevedere la formazione di agenti e venditori, lanciare prodotti dedicati, collaborando con esperti di marketing locali, investire nell’assistenza e manutenzione (es. della meccanica strumentale) sono passi strategici essenziali per esportare in Africa con successo.
Restare fermi all’idea, di derivazione coloniale, di spedire prodotti finiti senza affrontare nessuno sforzo ulteriore è, genericamente, una pessima strategia.
Usare come scusa le ridotte dimensioni aziendali, la debolezza del supporto “sistemico” (banche italiane assenti, ministeri e ambasciate burocratizzate, ecc.) rischia di essere solo l’anticamera del terzo, pericolosissimo, mito.
3. Non voglio rischiare nulla!
Fare impresa, ovunque al mondo, significa provare a risolvere un problema del cliente meglio delle alternative esistenti. Mettersi in gioco per provare a “vincere” qualcosa. Affrontare la possibilità di perdere qualcosa.
In altre parole, rischiare.


Se vuoi esportare in Africa senza rischiare nulla, cambia continente.
Se non hai ancora capito che rischio e opportunità sono semplicemente due facce della stessa medaglia, cambia mestiere.
L’imprenditore che vuole esportare in Africa deve rischiare. In piccolo. Con cervello. Prendendo tutte le dovute contromisure per non mettere a rischio la continuità aziendale (o addirittura la vita stessa).
Ma sognare di poter sviluppare affari in qualsiasi Paese africano senza assumersi alcun rischio è una follia.
Rischiare oggi, per raccogliere (forse) domani.
Non saprei se il buonsenso evapora con l’età, in un Paese (l’Italia) dove solo il 20% della popolazione ha meno di vent’anni. Mentre un africano su due è nato dopo il 2000.
Ma questa è la strada che un imprenditore deve percorrere per creare valore nel lungo periodo ovunque al mondo. Anche e soprattutto “in-Africa”.
4. Qualità? Siamo-in-Africaah
Per lungo tempo pensare di esportare in Africa ha significato, in primis, vendere beni di scarsa qualità: vestiti usati, autovetture “France Adieu!”, impianti di seconda o terza mano e così via.


Il vento sta cambiando, e non da oggi.
I governi locali, di fronte a milioni di giovani in cerca di lavoro, incoraggiano il Made in Africa concedendo importanti incentivi per investire in loco e alzando i già elevati dazi sulle importazioni.
Dopo il primo smartphone Made in Africa (Rwanda), i primi passi di un’industria automobilistica in Ghana e il posizionarsi dell’Etiopia come hub tessile globale, vengono apertamente sfidate le filiere di importazione degli “scarti” dell’Occidente.
Tra le recenti notizie dal forte impatto emotivo e simbolico, e dunque anche politico, il divieto di importare vestiti usati in Rwanda o le auto di seconda mano in Ghana.
La crisi di Covid-19, mettendo in luce i benefici di supply chain più corte, finirà per accelerare queste dinamiche.
5. La cultura locale non mi interessa
Un altro errore comune per l’italiano che vuole esportare in Africa è quello di sottovalutare gli interlocutori locali, partner o clienti, illudendosi di avere a che fare con sempliciotti senza esperienza.
Ancora una volta: il continente è grande e non voglio generalizzare.
Ma pensare, come ancora oggi vedo fare, di esportare in Africa dando per scontata l’asimmetria informativa che esisteva con questi contesti negli anni ’70-’80 non ha alcun senso.
Come evidenzia Simone Santi, fondatore di Leonardo Group con ventennale esperienza nel continente:
Ci sono oggi pochi spazi per avventurieri. Gli africani hanno ricevuto molte promesse e distinguono perfettamente chi cerca solo il contratto da chi vuole creare valore in loco.


Sottostimare l’impatto del crescente orgoglio culturale, mostrarsi arroganti, ignorare i possibili equivoci interculturali è il modo migliore per tornare in Italia con le pive nel sacco ancor prima di iniziare a esportare in Africa.
Due esempi per capirci meglio.
Spesso capita che le controparti “africane” (generalizzo, ancora una volta) non rispondano alle mail. Questo fa imbestialire gli interlocutori italiani/europei che lo interpretano come una mancanza di rispetto.
Spesso, invece, è solo necessario un incontro di persona e il ricorso a canali più diretti (leggi WhatsApp) per poi arrivare anche ad un efficace scambio di documenti via mail.
Un altro esempio. Come ovunque al mondo, gusti e preferenze dei clienti possono apparire “bizzarri”. Vale in primis per il B2C, ma non solo. In Uganda, per esempio, c’è un crescente interesse per i prodotti vinicoli di qualità. Ma i vini secchi, seppur pregiati, non piacciono. Mentre quelli dolciastri (o dolcissimi) vanno a ruba.
Adattare la propria offerta ai gusti della clientela e ai suoi modelli di acquisto richiede un investimento di tempo, energie, denaro. Ma è l’unica strada per posizionare adeguatamente il tuo prodotto o servizio in mercati che non fanno alcuna eccezione ad una verità universale:
vuoi vendere? Servi il cliente.
Chiunque esso sia.
6. Concorrenti? Non vedo nessuno!
Da ultimo, collegato al mito precedente, resiste il mito dell’Africa come “mercato vergine”, con bassa o nulla presenza di concorrenti qualificati.
Illudersi di non avere concorrenti non è mai una buona strategia imprenditoriale.
Anche perchè non è mai vero.
Prendi un Paese africano a tua scelta, definisci il prodotto e il posizionamento di mercato. Sono pronto a scommettere che esistono alternative percepite, dal cliente, come concorrenziali.
Ripetersi “siamo leader mondiali” o “il nostro prodotto è meglio” non migliora le chance di successo.
Anzi.
Anche se l’imprenditore italiano medio lo ignora, ci sono oltre 400 aziende africane con un fatturato superiore al miliardo di dollari (sudafricane, nigeriane e marocchine, ma non solo).
E in qualsiasi mercato africano operano ormai concorrenti asiatici, europei, americani.


Considerare il “Made in Italy” detentore, a priori, di una qualità superiore tale da consentire prezzi dieci volte superiori e condizioni di pagamento proibitive rispetto alle alternative percepite come concorrenziali non funziona più.
Il prodotto italiano, sempre generalizzando, suscita quasi ovunque fiducia e interesse ma non è più possibile limitarsi a questo aspetto per entrare in mercati ancora molto sensibili al fattore prezzo.
Per avere successo in Africa bisogna imparare dagli imprenditori cinesi che non ragionano più tanto su “quanto posso esportare in Africa” ma sempre più su “quanto posso produrre/assemblare in loco”.
La notevole esperienza tecnica italiana ha tutte le caratteristiche per vita a un “Made in Africa with Italy” in ogni settore.
Basta smettere di credere ai sogni e mettersi al lavoro.
Da ultimo, ti raccomando di porre le tue domande nel nostro gruppo Facebook privato: troverai una vera e propria comunità pronta a condividere informazioni, risorse e contatti (“con l’entusiasmo e collaborazione che di solito vedo solo nei forum sportivi”, mi è stato detto).
Basta dimostrare di aver superato i miti di cui sopra.
Buone informazioni stimolanti per imprenditori artigiani commercianti spesso troppo seduti
Eh eh…