No, i miei non sono arrivati su un barcone

Ma i tuoi sono arrivati con un barcone?

La domanda mi spiazza, mi offende, mi fa rabbia.

Specialmente perché proviene da un docente universitario (peraltro di… storia del diritto migratorio!)

Ingurgito la rabbia con la velocità e veemenza di un fulmine e rispondo:

No, in aereo. Lasciarono il Congo per studiare in Europa.

La mia diplomazia conclude la conversazione senza spargimenti di sangue.

Ma nella mia mente si fanno spazio diverse domande:

  • da quando è diventato comune chiedere a qualcuno se è arrivato su un barcone?
  • cosa trasmette alle generazioni future un docente che pone questo genere di domande?

Ma soprattutto:

  • contro chi puntare il dito se il primo pensiero che viene in mente incontrando una persona di origine africana sono i barconi?

Storia di persone che studiano all’estero. In aereo

I miei genitori sono partiti negli anni ’70 dall’allora Zaire (oggi RDC) per studiare in Europa.

In Italia hanno raggiunto i massimi gradi accademici in Sociologia, Scienze dell’Educazione e Psicologia.

Da piccola ho sempre vantato i loro successi. Crescendo mi sono resa conto che sono milioni i giovani che studiano e si realizzano in un Paese diverso da quello in cui sono nati.

Nel 2016, secondo UNESCO, il 3,1% degli studenti italiani ha deciso di studiare fuori dai confini nazionali. Il doppio rispetto a dieci anni prima.

Ma nessuno gli domanda se siano arrivati in barcone o a nuoto.

Quand’è che ci siamo concessi il lusso di lasciare che il racconto miope di altri rendesse del tutto naturale porre ad una persona una domanda come:

Ma i tuoi sono arrivati qui con il barcone?

Le colpe dei mass-media

Ho deciso di lavorare come giornalista freelance e documentarista per darmi il tempo di focalizzarmi sulle migrazioni umane. Intuendo che le colpe risiedono, in buona parte, nei mass-media. Nella loro superficialità e nel perverso legame con la politica a caccia di facili voti.

In Italia, in particolare, i media affrontano il fenomeno dell’immigrazione con un mix di superficialità, etnicizzazione, spersonalizzazione e criminalizzazione che trascura veridicità dei fatti e oggettività della narrazione.

Si potrebbero citare molte statistiche. Per spiegare che gran parte degli africani si spostano all’interno del continente. Per dimostrare che la popolazione di origine subsahariana in Italia è più o meno stabile (intorno al 2,5% della popolazione) negli ultimi quindici anni.

Ma l’esperienza mi ha insegnato che i dati non bastano a convincere.

La mia soluzione

Nel 2013 ho deciso che era tempo di cambiare strategia. Iniziando a mostrare tutto ciò che viene ignorato quando si etichettano le persone di origine straniera: la loro vita quotidiana.

Nasce così (In)visible Cities, serie documentaristica sulle comunità diasporiche africane in tredici città del mondo.

Le prime tappe sono state Cardiff, Los Angeles e New York. Abbiamo trascorso da uno a tre mesi in ciascuna città, per immergerci nella vita quotidiana dei quartieri e delle comunità che abbiamo provato a raccontare. Abbiamo incontrato persone di successo, come il primo congolese a quotarsi a Wall Streetun importante attivista per i diritti umani o una giovane giornalista sportiva, ma anche tante persone comuni.

Con le loro storie vogliamo mostrare che provenire dall’Africa non vuol dire altro che condividere lo stesso sangue rosso e le medesime speranze di chiunque altro.

L’episodio più recente di (In)visible Cities racconta Istanbul: si tratta del primo prodotto filmico focalizzato sugli africani che abitano questa città, crocevia di Oriente e Occidente.

Ne abbiamo incontrati alcuni, tra cui anche qui alcuni artisti e imprenditori, cercando di dare il massimo per raccontare le loro storie.

Sta a chi guarda giudicare se ci siamo riusciti.

(In)visible Cities è prodotto da  Balobeshayi (termine che in lingua tshiuluba significa “vi abbiamo convinti”), cooperativa che ho fondato e presiedo.

La serie documentaristica, che ha vinto il premio Melograno della Fondazione Nilde Iotti e il premio multiculturalità del Comune di Roma, è la mia risposta a chi non vuole saperne di numeri. A chi cerca prove tangibili.

Ma soprattutto è il mio modo di onorare la storia dei miei genitori: raccontando quella di tanti altri che hanno lasciato il paese di origine per seguire un’opportunità.

Tanti (fortunatamente) l’hanno fatto prendendo un aereo.

Perché, checché si dica, è un’usanza ancora in voga.

 

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