Decolonizzare è un verbo che mi affascina e che, al contempo, mi tormenta.
Un verbo potente, con una forza tale da dispiegare un infinito ventaglio di possibilità. Ma cosa significa decolonizzare e cosa decolonizzare? La storia? I musei? Il cibo? Tutto è de-colonizzabile.
Di nuovo però, chi è il soggetto che decolonizza e cosa può decolonizzare?
Ngugi Wa Thiong’o suggerisce di cominciare da noi stessi decolonizzando le nostre menti.
Tra i più grandi scrittori africani, Ngugi è romanziere, saggista, poeta e professore. Nato nel 1938 a Limuru (Kenya), ha ricevuto un’educazione coloniale in inglese, una lingua assassina perché:
fiorisce sulla tomba delle altre lingue.
All’inglese Ngugi ha contrapposto la sua lingua materna, il gikuyu, in un atto di radicale militanza intellettuale:
Questo libro è dedicato con riconoscenza a tutti coloro che scrivono nelle lingue africane, e a quelli che nel corso degli anni hanno preservato la dignità della letteratura, della cultura, della filosofia e degli altri tesori veicolati dalle lingue africane.
Questa la dedica che introduce a “Decolonizzare la mente”, raccolta di saggi pubblicata nel 2015, in cui l’autore affronta il tema della liberazione dal giogo coloniale da una prospettiva prettamente culturale.
Il potere delle lingue
Ho scoperto questo immenso autore quasi per caso e, immergendomi in questo libro, mi sono scoperta.
Nei suoi scritti ho intravisto la mia immagine e re-interpretato la mia educazione, perché è anche di questo che parla Ngugi: l’impresa imperialista e la cosiddetta “bomba culturale”
una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nel proprio ambiente, nel proprio patrimonio di lotta, nella propria unità, nelle proprie capacità e in definitiva in sé stesso.
Sono nata in Burkina Faso e fin da piccola ho imparato a coniugare il moré, la mia lingua locale o, come dice qualcuno, il mio “dialetto”, e il francese. Quest’ultima la lingua della scuola, della burocrazia e della legge. Mio nonno mi raccontava favole in moré e mia mamma mi leggeva Biancaneve in francese.
Non ho mai pensato che il francese non mi appartenesse o che avesse una dignità diversa dal moré. Non mi sono mai accorta che il francese dominasse o soffocasse il moré nè mi sono mai domandata perché non abbia mai visto un dizionario moré-francese in tutta la mia infanzia.
Tuttavia, ora che Ngugi mi parla, inizio ad interrogarmi sul motivo per il quale non ho mai letto un libro in moré o visto un cartone animato in moré. O sul motivo per il quale scrivere nel mio curriculum che sono madrelingua moré non aggiungerebbe nulla al mio profilo.
Apparentemente la conoscenza del moré non vale niente sul mercato, proprio come un C2 in bergamasco o napoletano: è il successo del progetto coloniale che Ngugi critica e che non si applica solo al contesto africano, ma anche a quello europeo. A quello burkinabé come a quello italiano.
Decolonizzare? Più che una strada è una rotonda
Non si può riconoscere l’esistenza della decolonizzazione senza prendere atto del suo contrario: la colonizzazione. Qui un primo elemento di riflessione: se la colonizzazione è stata una strada a senso unico, la decolonizzazione ha invece un doppio senso, forse addirittura è una sorta di rotonda. Un processo circolare in cui girando e ritornando sui propri passi, si riesce a riflettere sullo stesso concetto in diversi modi. La circolarità del processo ne rivela non solo l’infinità, ma anche il rischio di non vedere una reale via d’uscita.
Decidere di decolonizzare la propria mente è un vero travaglio, etimologicamente parlando, perché è un processo lungo e difficile che presuppone di essere allo stesso tempo soggetto e oggetto di un cambiamento radicale.
Decolonizzare la propria mente è ridare dignità alla propria cultura strappandola allo stato di subalternità in cui si trova. Se oggi si può suddividere l’Africa in francofona, anglofona e lusofona è perché nel 1884, attorno a un tavolo in quel di Berlino, è stato deciso il futuro del continente. Anche in termini linguistici e culturali.
L’operazione coloniale è stata portata avanti da personaggi come un certo Maurice Delafosse, ufficiale coloniale in Africa Occidentale Francese e appassionato di linguistica, che affermava:
La nostra lingua [il francese] è senza dubbio una delle più complicate che esistano al mondo. Come si può pretendere che un nero, la cui lingua è di una semplicità rudimentale, assimili un idioma così raffinato come il nostro?
Convinzioni di questo tipo, senza alcun fondamento, hanno fatto nascere un razzismo linguistico e un sistema di oppressione intellettuale ancora oggi profondamente radicato.
In questo modo, è avvenuto il furto del diritto di autodeterminazione linguistica, negando a gran parte del continente la possibilità essere protagonista del cammino verso l’unità linguistica, processo con cui una lingua, tra quelle del territorio, viene scelta per facilitare la trasmissione e la comunicazione tra varie nazioni e comunità.
La liberazione del caleidoscopio linguistico africano
In Africa esistono oltre mille lingue indigene. Ma oggi si insegna prevalentemente in francese, inglese, portoghese, spagnolo. In passato anche in italiano e in tedesco.
Insomma, un “dono linguistico”, non richiesto, le cui conseguenze sono ancora vive oggi.
Cosa significa amare la propria lingua locale ma essere costretto ad abbandonarla entrando in classe?
Quali conseguenze porta interiorizzare la vergogna della propria cultura e della propria lingua?
Significa celebrare, inconsciamente, il successo del colonialismo e del neo-colonialismo culturale. Vivere dissociati dal proprio ambiente naturale e sociale.
Alienati ovvero essere costretti “a porsi fuori di sé per potersi guardare”.
È il processo che ha subito Ngugi da piccolo, per poi ribaltarlo decidendo di scrivere solo in lingua gikuyu. Un immenso atto di auto-liberazione che gli è costato il carcere e successivamente l’esilio.
Il potere temeva che Ngugi diventasse un pericolo indicando la via della disalienazione, della liberazione mentale e culturale alle masse alienate.
Quello di Ngugi è stato un atto di inestimabile coraggio. Ma ha concretamente prodotto un cambiamento nel continente?
Non saprei dirlo con precisione, ma con il passare del tempo noto un rinnovato orgoglio culturale.
Cenni di cambiamento in corso
Sono tornata per la prima volta in Burkina nel 2013 e alcuni dei miei cugini e conoscenti, che studiavano lingue all’università, erano concentrati solo su spagnolo e tedesco.
Tre anni dopo ho notato che tanti di loro includono le lingue africane nei loro CV.
Il telegiornale nazionale in Burkina dura più di un’ora: dopo la versione in francese si succedono quelle nelle varie lingue locali (ovviamente non tutte).
Lo stesso processo si nota per le pubblicità. Si tratta di segnali di cambiamento, successi culturali da celebrare.
Perché parlare moré o veneziano, gikuyu o bergamasco, bissa o napoletano, kiswahili o romagnolo, wolof o bresciano, bambara o piemontese, pensando a Ngugi, è un po’ come rinascere attraverso un atto di liberazione dall’auto-abnegazione sociale, economica e culturale collettiva.
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