Nonostante la narrazione approssimativa e schizofrenica sull’Africa, negli ultimi anni si è diffusa anche in Italia la moda di parlare di:
STARTUP AFRICANE
Prima di tutto una questione terminologica. Cos’è una startup? Secondo la definizione di Steve Blank, forse il massimo guru sul tema:
Una startup è un’organizzazione creata in cerca di un business model ripetibile e scalabile
Di conseguenza NON sono “startup africane” la bancarella per vendere frutta e verdura o le numerose soluzioni tanto curiose quanto inapplicabili commercialmente. Non è scontato. Perchè non c’è come spostare l’obiettivo verso il Continente Nero per giustificare esotismi e imprecisioni dozzinali.
Limitando quindi il campo alle nuove imprese tecnologiche, provo a mettere in evidenza alcuni rischi dell’attuale narrazione del fenomeno.
La carica degli “imprenditori seriali”
Le iniziative a favore delle startup africane spuntano come funghi: una buona parte di queste sono “business competition” che assegnano premi (spesso sotto forma di grant) alle nuove imprese.
Tra le più importanti:
- TEEP – Tony Elumelu Entrepreneurship Program, iniziativa decennale lanciata nel 2015 dal fondatore nigeriano di United Bank of Africa che ha impegnato 100 milioni di dollari per formare (e finanziare con qualche migliaio di dollari a testa) 10.000 startup africane;
- Seedstars, organizzazione svizzera che, con una rete di 80 business competition locali, investe in equity. Di recente ha siglato una partnership con Enel Green Power;
- African Entrepreneurship Award, lanciato nel 2015 da BMCE (banca marocchina).
Da anni ho occasione di seguire da vicino luci e ombre di questo vertiginoso proliferare di iniziative.
Da una parte sia diventato più facile trovare supporto (denaro, formazione e contatti) per avviare una nuova azienda rispetto anche solo a cinque anni fa. Fare impresa non è più riservato ai “cugini-del-presidente” o all’alta borghesia (i cui rampolli si concentrano in alcuni settori, tra cui quello delle materie prime).
L’aspetto meno positivo è forse l’enfasi eccessiva nel “lanciare nuove imprese” rispetto al “farle crescere”.
Conosco svariati giovani imprenditori africani che, ogni sei mesi, si lanciano in una nuova iniziativa. Questo perchè i loro progetti sono più pensati per vincere premi che per trovare clienti!
L’ecosistema “a sostegno” degli imprenditori rischia, a volte, di raccontare il fenomeno portando una distrazione rispetto ai problemi reali che si vorrebbero risolvere.
Giusto per capirci, si finisce involontariamente in questa situazione:
Zuckerberg? Non qui, non ora
I media non aiutano, concentrati solo su una narrazione episodica e sensazionalistica delle startup africane, tradendo continui stereotipi eurocentrici.
Sono molto d’accordo con Sadibou Sow, fondatore senegalese di afriqueitnews.com, quando dice:
Smettetela di cercare il prossimo Zuckerberg in Africa. Mark non sopravvivrebbe un giorno qui
La realtà degli “ecosistemi” africani vede, un po’ ovunque, lottare le nuove imprese tecnologiche contro ostacoli non indifferenti tra i quali:
- scarsi capitali di rischio (per capirci sono stati investiti in startup 366 milioni di dollari lo scorso anno in tutta l’Africa. Nella sola Silicon Valley… 25 miliardi!)
- pochi “mentor”: gli imprenditori locali di successo sono pochi e ancora troppo occupati nel sviluppare la propria impresa per poter aiutare quelli più giovani
- ruolo della legge ancora molto migliorabile: gran parte dei paesi africani soffrono di un’inadeguata tutela della proprietà intellettuale
- penuria di talenti: multinazionali e grandi ONG rendono la vita difficile (perchè pagano ottimi salari) a chi cerca competenze specifiche non facilmente reperibili sul mercato
Più Brianza, meno Silicon Valley?
La voglia di fare, la capacità di arrangiarsi e la creatività africane sono doti indubbie e tangibili. Nonostante alcuni eccessi, tra i quali citerei la mancanza di umiltà di alcuni founder attratti più dallo status (es. targhetta da CEO sulla scrivania o autista personale) che dallo scopo di servire il cliente.
In questo senso credo che sarebbe prezioso che i giovani imprenditori africani si ispirassero un po’ meno alla Silicon Valley e un po’ di più alla Brianza o all’Emilia Romagna degli anni ’50-’60. Meno convegni, interviste e tweet. Più sostanza e maniacale attenzione alla qualità del prodotto/servizio.
Anni di lavoro gomito a gomito con le startup africane sono stati una grandissima opportunità di ispirazione e crescita personale.
Come osservava Antonello Bartiromo, partner di dpixel che ho guidato in un’esperienza di viaggio a Kampala:
Qui ho rivisto il mio concetto di “resilienza” che è uno degli elementi che cerchiamo nei team imprenditoriali in Italia. Ecco, quella dei nostri è nulla di fronte a quella dei giovani africani che si confrontano quotidianamente con una realtà che offre ancora poco, ma nonostante questo perseguono con entusiasmo il loro sogno imprenditoriale
Il dinamismo imprenditoriale del continente più giovane del mondo rappresenta, ancora una volta, un’opportunità. I giganti del web (che non sono certo dei filantropi) l’hanno capito molto bene.
Il mondo delle PMI (piccole-medie imprese) italiane molto meno. Fermo com’è a una visione stereotipata del continente, si blocca quasi sempre su due posizioni opposte:
- alcuni guardano l’Africa solo come a un’orizzonte dove fare “beneficienza”, con il risultato di non riuscire a cogliere tangibili opportunità
- altri ritengono che, in quanto autoproclamati campioni del “Made-in-Italy”, in Africa debbano automaticamente avere le strade spianate, dimenticandosi che sono mercati complessi, che non premiano il “mordi-e-fuggi” e comunque sempre più affollati di attori economici non occidentali (Cina, India, Emirati Arabi, Turchia, ecc.)
Perchè invece non guardare alle startup africane per imparare come adattarsi al cambiamento e stringere partnership con alcune di loro per cogliere opportunità win-win?
Ti interessa approfondire?
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