È scomparso a 96 anni Angelo Del Boca, storico e giornalista che ha dedicato la vita allo studio della storia del colonialismo italiano in Africa.
Già, seppur con risorse inferiori alle altre Potenze, il Belpaese ha avuto un “imperialismo straccione“.
Ma non per questo meno brutale.
Pur attraverso cocenti sconfitte (Adua 1896, contro l’Etiopia), l’Italia ha controllato quattro Paesi africani per decenni:
- Eritrea (1882-1947)
- Somalia (1890-1945, poi amministrazione fiduciaria fino al 1960)
- Libia (1911-1943)
- Etiopia (1936-1941)

Tra amnesia e auto-assoluzione
Di recente sono stato docente ad un corso per funzionari africani, tra cui un somalo e un libico.
Durante la pausa caffè, abbiamo parlato a lungo di come l’opinione pubblica italiana abbia di fatto dimenticato i legami storici che ci uniscono.
Prova a chiedere in strada quali erano le colonie italiane? Quanti sanno citarne anche una sola?
E questo è un danno per tutti.
Centinaia di migliaia di famiglie, tra cui magari anche i tuoi parenti, sono stati coinvolti sui vari fronti di questi fatti. Eppure è come se, con la caduta del fascismo, fosse calato il sipario.
Sento spesso imprenditori italiani affermare:
a differenza di francesi e inglesi noi non abbiamo un passato coloniale!
Si pensa di potersi facilmente differenziare, senza sforzo, dai concorrenti europei (es. cugini transalpini) di cui è noto il pesante (e sempre meno popolare) coinvolgimento nell’area.
A mio parere, sarebbe più saggio conoscere i chiaroscuri dei fatti per poter esplorare terze vie un filo più efficaci dalle auto-assoluzioni.
Cosa è stato il colonialismo italiano in Africa?
Sul colonialismo italiano si fronteggiano, come da tradizione italica, solo due grandi luoghi comuni:
o gli italiani erano brava gente che hanno portato la civiltà e le strade ma non hanno potuto compiere l’opera perché hanno perso la seconda mondiale, oppure hanno compiuto solo crimini di guerra trucidando e seviziando i civili senza pietà durante tutto il loro dominio.
Come sempre nella storia, la situazione è un filo più complessa.
Nicola Labanca, altro esperto del colonialismo italiano in Africa, afferma che di questo periodo si è parlato poco:
perché l’anticolonialismo si era indebolito dopo vent’anni di fascismo. Negli altri Paesi liberali invece il dibattito era forte e si poteva raccontare ciò che succedeva nelle colonie anche con occhio critico. Per esempio la Francia si è spaccata intorno all’Algeria, nel Regno Unito c’è stato un enorme dibattito intorno all’indipendenza dell’India nel 1947. Non si può paragonare il colonialismo francese e britannico con quello italiano. Il nostro è stato una piccola cosa anche rispetto ai grandi imperi spagnoli e portoghesi. Una piccola cosa che produceva piccoli guadagni che interessava una piccola parte del Paese.
Se vuoi lavorare efficacemente con l’Africa, come imprenditore o professionista, ti conviene superare l’idea infantile degli “italiani brava gente” e rileggere con intelligenza il passato dell’Italia in questo continente.
Anche perchè – detto inter nos – nessun popolo è “bravo”. Manco i popoli extra-europei, ovviamente.
Gli italiani? Non fanno eccezione.
La forza della responsabilità
L’Italia gode di una buona popolarità in tanti diversi contesti africani.
Ho trovato più conoscitori dei segreti della Serie A nelle periferie di Nairobi, Dakar e Freetown (ma anche in sperduti villaggi nella savana) che nelle più blasonate trasmissioni TV del Belpaese.
Tra le tante eredità della storia coloniale italiane, ci sono microstorie personali che andrebbero studiate con attenzione per apprenderne elementi preziosi.
Solo a titolo di esempio, hai mai sentito parlare di Amedeo Guillet o di imprenditori come Roberto Barattolo e Luigi Melotti in Eritrea?
Paradossalmente, riconoscere di essere gli unici europei ad aver subito una cocente sconfitta da una controparte africana (appunto la battaglia di Adua, nel 1896) potrebbe essere un biglietto da visita più credibile che auto-elogiarsi come “belli e buoni” ignorando la storia recente.
Prendersi le proprie responsabilità è, di norma, un buon punto di partenza per costruire qualcosa di differente e più interessante.
Come scrive “Il Messaggero” ricordando Del Boca:
la sua opera ha contribuito a smontare uno stereotipo innocentista, una cultura della non responsabilizzazione che ha affrancato a lungo gli italiani da evidenti responsabilità storiche. Non è un caso che si sia venuto piano piano a rimuovere il ricordo della guerra di Etiopia: solo nel 1996 il ministero della Difesa e degli Esteri hanno ammesso l’utilizzo di agenti chimici in Etiopia da parte del nostro esercito. Trent’anni prima Del Boca aveva fatto emergere proprio i crimini compiuti dai militari italiani, compreso l’uso dei gas tossici vietati dalle convenzioni internazionali.
In particolare:
nel volume “Italiani, brava gente?” Del Boca ha decostruito questo mito, affrontando alcune delle pagine più buie della storia nazionale: i massacri di popolazioni del meridione d’Italia durante la cosiddetta «guerra al brigantaggio»; l’edificazione nell’isola di Nocra, in Eritrea, di un tremendo sistema carcerario; le rapine e gli eccidi compiuti in Cina nel corso della lotta ai boxers; le deportazioni in Italia di migliaia di libici dopo la sanguinosa giornata di Sciara Sciat; lo schiavismo applicato in Somalia; la creazione nella Sirtica di quindici lager mortiferi per debellare la resistenza di Omar el-Mukhtàr in Cirenaica; l’impiego in Etiopia dell’iprite e di altre armi chimiche proibite per accelerare la resa delle armate del Negus.
Lo storico piemontese ha messo in luce come la struttura della società coloniale italiana avesse due vertici opposti:
una ristretta élite burocratica, militare, imprenditoriale e alla base un proletariato bianco non qualificato di breve permanenza, pochi i contadini, poi la maggioranza di coloni, una multiforme classe media. La solidarietà di razza, propria di un contesto coloniale, non ribaltò la gerarchizzazione e la divisione in classi vissuta in patria. Anzi i “poor white” erano percepiti dall’élite coloniale come una minaccia per la società dominatrice e per la purezza razziale: erano i più esposti al rischio della degenerazione del meticciato per la vicinanza con i nativi nei luoghi non esclusivi della città africana.
In questo senso l’eredità di Del Boca evoca un gesto chiave della storia europea:
Il 7 dicembre 1970, durante la sua visita a Varsavia, il Cancelliere tedesco Willy Brandt si inginocchiò di fronte al monumento in memoria della distruzione del ghetto della capitale polacca. Si trattò di una chiara ammissione di colpa per quanto commesso dal popolo tedesco, che Brandt rappresentava pur senza essere in alcun modo lui responsabile di quella vergogna. È la memoria di ciò di cui c’è da vergognarsi che conserva il ricordo dei torti compiuti verso gli altri. La memoria autocritica soppianta quella autocelebrativa, rivendicativa che spesso è diventata memoria istituzionale.
Per usare le parole del filosofo camerunese Achille Mbembe:
la memoria è soprattutto una questione di responsabilità nei confronti di qualcosa di cui spesso non si è l’autore.
Ricordare la storia coloniale italiana in Africa, scoprirne i segni ancora presenti nei luoghi pubblici e nell’inconscio collettivo, può solo aiutarti ad una maggior consapevolezza nella costruzione di prospettive più serie e costruttive con il continente africano.
Che non trascurino di far rete con le tante “Italie” presenti in Africa e le “Afriche” meno note in Italia come quelle raccontate dal documentario Asmarina sulle comunità italo-etiopi e italo-eritree a Milano:
Le relazioni tra persone, tra imprese, tra Stati, non sono per forza giochi a “somma zero” (dove tu vinci e io perdo, o viceversa).
Quasi sempre è possibile guadagnare entrambi, se solo si prova a percorrere nuove piste guidati da visione e coraggio.
Pronti? ViA!
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