L’80% del cacao arriva dall’Africa Occidentale. Dove quasi nessuno conosce il sapore del cioccolato. Un paradosso, di origine coloniale, che crea un enorme gap tra cioccolaterie e piantagioni in una filiera globale a dir poco opaca. A guadagnarci solo pochi grandi player (intermediari e trasformatori).
A perderci? Tutti gli altri.
Dai lavoratori sfruttati, all’ambiente distrutto, alla salute dei consumatori compromessa da pesticidi fino alle tante difficoltà per i cioccolatieri interessati alla qualità.
Ma come invertire la rotta?
Andrea Mecozzi, marchigiano di Campofilone (FM), ha fondato Chocofair, rete di produttori rivolta a garantire un approvvigionamento sicuro e tracciabile di cacao di qualità.
Un’iniziativa, nata nel 2013, che dimostra i vantaggi tangibili di filiere che partono dai contadini e mette in luce le opportunità di trasformare in loco le materie prime africane.
Prima di iniziare, ti invito in VADOINAFRICA NETWORK: la community dedicata allo sviluppo di relazioni costruttive con il continente africano.
In fondo all’articolo troverai una proposta da non perdere.
Chi è Andrea Mecozzi?
Un libero professionista che costruisce canali commerciali per cacao altrimenti senza sbocco: i cacao naturali, quelli aromatici e da piantagioni sostenibili, quelli coltivati da famiglie cacaotere o da cooperative che mettono l’etica al primo posto.
Sono selezionatore di cacao e consulente di filiera.
Formo i produttori perchè possano migliorare le selezioni della materia prima, così da poter accedere a mercati premium.
Affianco produttori di cioccolato interessati ad approvvigionarsi direttamente di cacao scelti e tracciabili e formo cioccolatieri e gelatieri a conoscere la materia prima cacao, andando all’origine, oltre i classici semilavorati.
Come ti sei appassionato di cacao?
Tutto inizia nel 2002 quando mi sono trasferito a Perugia per l’università. Avevo necessità di guadagnare qualcosa. Così ho iniziato a lavorare per Eurochocolate.
Mi si è aperto un mondo.
Ho continuato a conoscere artigiani e produttori, focalizzando i miei studi (prima Storia, poi Relazioni Internazionali) sull’analisi della filiera globale del cacao.
Ho fatto esperienze in Ghana ed Ecuador, prima di lavorare in Costa d’Avorio e Togo come coordinatore di un progetto europeo di cooperazione sul tema.
Qual è il paradosso del West Africa?
In Africa Occidentale non si consuma cioccolato. Nè si producono varietà pregiate di cacao.
Un’assurdità che deriva dalla storia della regione: durante il periodo coloniale il processo di trasformazione della fava in cioccolato veniva tenuto nascosto alle popolazioni avviate alla coltivazione del cacao, così da mantenerne la dipendenza dalle madrepatrie. L’effetto nefasto di questo è evidente.
Finchè chi coltiva non conosce il prodotto finito nè tutte le fasi della lavorazione non si può innalzare significativamente la qualità del cioccolato.
Un impoverimento che si ripercuote anche a valle della filiera.
Produrre un cioccolato anonimo, sempre uguale, non è un problema per i grandi gruppi industriali del Nord Europa.
Provoca gravi danni alla cioccolateria d’eccellenza italiana, costretta a giocare solo con gli ingredienti per la difficoltà a “tirare fuori l’anima” dal prodotto.
Per capire meglio cosa intendo sostituiamo al binomio cacao-cioccolato quello, più noto, uva-vino.
Quali vini si potrebbero produrre se i vignaioli italiani non potessero assaggiare il prodotto finito?
Quanti danni se non avesse mai potuto sbocciare la secolare arte di collegare le piccole modifiche alla pianta e alla lavorazione del mosto al prodotto finale?
Portare la conoscenza del processo di trasformazione nei contesti africani, con grande disponibilità di materia prima e condizioni ambientali ideali per produzioni di qualità, significa costruire partnership solide per approvvigionarsi di prodotti di prima qualità a prezzi migliori e tempistiche ottimizzate rispetto, ad esempio, al Sud America.
Il tutto creando prospettive di reale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Per tutto questo non servono grandi investimenti.
Perchè è nata Chocofair?
Chocofair si basa su una verità tanto semplice quanto ignorata:
il segreto di un buon cioccolato sta tra le mani dei produttori di cacao.
Nel 2013, al termine del mio lavoro in Costa d’Avorio e Togo, volevamo creare occasioni di collaborazione stabile per le persone e le imprese che avevano collaborato fuori da dinamiche di sfruttamento.
ChocoFair nasce così per connettere direttamente produttori e trasformatori, affiancare artigiani e imprese a selezionare i macchinari più adatti a valorizzare la materia prima e diffondere buone pratiche nella filiera.
Siamo oggi presenti in Italia, Costa d’Avorio, Togo, Sierra Leone, São Tomé, Colombia e Venezuela.
Come hai contribuito ai primi cioccolati “Made in West Africa”?
Il progetto europeo che ho coordinato prevedeva la formazione in Italia (a Modica e Perugia) di sei giovani togolesi e altrettanti ivoriani.
In quel quadro sono state fornite le prime competenze necessarie per avviare due imprese di trasformazione del cacao in Togo e Costa d’Avorio. La prima, già nel 2013, è stata la cooperativa ChocoTogo fondata da Komi Agbokou, Nathalie Kpante e il sottoscritto.
Avevamo un obiettivo chiaro e ambizioso: trasformare il cacao togolese, fino a quel momento interamente esportato, in un cioccolato di qualità per il mercato interno.
Si è rivelata un’avventura affascinante ma non priva di ostacoli.
A partire dalle infrastrutture (elettricità, logistica, immobili), fino alla necessità di continui investimenti per incrementare la formazione tecnica dei collaboratori e superare così la diffidenza dei consumatori togolesi, che preferivano di gran lunga la tavoletta “Made in France” alla nostra.
Solo grazie a tanta energia e determinazione siamo arrivati oggi a impiegare 60 donne nell’area di Kpalimé e 14 soci lavoratori nell’impianto di trasformazione di Lomé. ChocoTogo è anche membro Slow Food e ha partecipato a tutti i Saloni del Gusto dal 2014.
Siete riusciti a realizzare lo stesso anche in Costa d’Avorio?
L’ivoriana Choco+, con sede a Grand Bassam, ha avuto una gestazione molto più lunga. Vede la luce nel 2018 come impresa sociale dentro Communauté Abél, centro di formazione e sostegno aperto negli anni’80 dal Gruppo Abele di don Luigi Ciotti.
Si tratta dunque di un progetto con un profilo non-profit, dove gli utili sono interamente reinvestiti nelle attività sociali. Reperire i fondi necessari ha richiesto molto più tempo.
Ma oggi anche Choco+ è entrata in produzione e impiega 5 collaboratori locali.
Quali sono le principali difficoltà incontrate in questi anni?
La prima è stata la formazione. Non esistono scuole dove imparare tutto quello che mi son trovato a fare. Quello che so oggi lo devo a questi dieci anni di esperienza sul campo.
Anche per tutti i nostri collaboratori in Togo e Costa d’Avorio quanto imparato dal progetto iniziale è stato solo una piccola parte di quello che serve per produrre davvero.
Il secondo grande ostacolo è riuscire a far capire quanto sia diversificato il prodotto cacao. E dunque quanto sia importante non fermarsi al fattore prezzo.
Alla fine il problema dello sfruttamento nasce lì: il consumatore considera tutto il cioccolato uguale e si limita a paragonare i prezzi sullo scaffale. Così facendo acquista prodotti di scarsa qualità, spesso soggetti a pesanti trattamenti fitosanitari sistemici.
Per avere un cacao di qualità, come peraltro per qualsiasi altro prodotto alimentare, occorre rispettare i cicli naturali e sapere che le quantità saranno minori.
Guardare solo al dato finanziario di breve periodo spinge i produttori a stressare le piante e il terreno cercando solo la quantità.
Considero i miei sforzi stati ripagati dalle tante soddisfazioni tra cui vedere le tavolette di Choco Togo servite su ASKY, la compagnia aerea regionale, o il cioccolato finalmente sgorgare dal raffinatore di Choco+ dopo cinque anni di difficoltà.


Ritieni che il vostro modello sia applicabile anche ad altre filiere agroalimentare?
Certo. Ti dico di più. Penso che la nostra metodologia può essere applicata a qualsiasi filiera, anche in settori non alimentari.
L’Africa Occidentale ha una viscerale necessità di piccole e medie imprese in grado di trasformare e aggiungere valore localmente. Solo in questo modo è possibile cambiare la situazione attuale.
Credo che bisognerebbe trasformare radicalmente la cooperazione. Dovremmo cercare di superare la convinzione che scavando pozzi o costruendo scuole “salviamo l’Africa” (perché in fondo gli africani sono un po’ scemi e non lo sanno fare da soli).
Rispettare le culture e interagire in un’ottica più paritaria può dare a loro e dare a noi. Crescendo insieme.
Le piccole unità di trasformazione agroalimentare per il mercato locale funzionano. E, per il momento, i macchinari italiani sono un buon compromesso tra tecnologia e prezzo. Anche se gli indiani stanno arrivando molto veloci e le loro macchine sono molto più affidabili di quelle cinesi.
Occorre tanta pazienza e coinvolgere bravi sociologi e psicologi (meglio se locali) nell’approcciare il progetto. Oppure cercare imprese locali già attive, se esistono.
Cosa proponi a chi si interessa di cioccolato?
Due momenti distinti. Il primo è un workshop sulla lavorazione del cioccolato partendo dal cacao. Due giorni rivolti ad artigiani o aspiranti tali (anche amatori). Un weekend dedicato a chi vuole conoscere come si produce cioccolato e cosa significa davvero lavorare la materia prima.
Ogni anno organizziamo poi un viaggio in Togo e Costa d’Avorio sulle strade del cacao. Un’occasione per entrare in contatto diretto non solo con ChocoTogo e Choco+ ma anche tanti altri produttori di cacao e caffè.
Un viaggio per comprendere che l’Africa Occidentale è molto di più di quel che spesso si pensa o viene comunicato dai mass-media.
Sperando di averti ingolosito, ti aspettiamo in VadoinAfrica Network!