Lavorare in Africa è un orizzonte che sta diventando molto più vasto del solo campo della cooperazione (già di per sè vastissimo). In questo scenario emerge la necessità di specializzarsi in un settore e in un contesto specifico dove creare valore.
Jacopo Pendezza, 34 anni, è un esperto di elettrificazione rurale in Tanzania. Segue infatti da sei anni, prima con un’ONG poi per un’impresa privata, la realizzazione di progetti di elettrificazione con energie rinnovabili.
Ha risposto alle mie domande da Mwanza, cittadina sulle sponde del Lago Vittoria, dove si è trasferito da pochi mesi.
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Ciao Jacopo, cosa hai studiato e come sei arrivato a lavorare in Tanzania?
Mi sono laureato in Sviluppo e Cooperazione a Bologna per poi ottenere un Master in Studi Europei presso l’ULB di Bruxelles.
La mia prima esperienza lavorativa è stata, nuovamente a Bologna, in uno studio di consulenza per l’internazionalizzazione di imprese italiane.
Dopo un paio d’anni ho sentito il bisogno di tornare alle mie origini, quindi di tentare l’avventura della cooperazione. Nel 2011 sono così partito con CEFA per seguire un progetto di elettrificazione rurale nella zona meridionale della Tanzania.
Di cosa ti occupi oggi?
Da febbraio 2017 lavoro come Project Developer per RP Global, un’azienda austriaca che sviluppa, investe e realizza progetti di generazione di energia da fonti rinnovabili. Seguo l’itinerario di individuazione di nuovi progetti, lo sviluppo tramite l’ottenimento dei permessi, gli studi di fattibilità e la fase di realizzazione degli impianti. Pur essendo ancora in un periodo di rodaggio, sono piuttosto soddisfatto.
Come è avvenuto il passaggio dalla cooperazione al settore privato?
È stato abbastanza naturale, nel senso che sono rimasto nello stesso settore. In questo tipo di progetti, l’intervento dei privati è fondamentale. Anzi sarebbe auspicabile un maggiore coordinamento tra donor, ONG, imprese ed enti governativi locali.
Per quanto riguarda le mie motivazioni personali, avevo bisogno di nuovi stimoli e, semplicemente, volevo vedere come funzionava lavorare in Tanzania “dall’altra parte”.
Pro e contro di entrambi?
Il pro di lavorare con una ONG è che si lavora più a contatto diretto con i beneficiari. I contro sono le difficoltà economiche e i forti vincoli di budget dei progetti finanziati.
I pro di lavorare nel privato è una certa agilità di decisione e di azione, se da una parte le cose non procedono, allora si può facilmente essere adattabili, appunto perché non si deve rispondere a un progetto finanziato. Di contro per ora non ne vedo.
Come va la Tanzania? Che aria si respira con il nuovo presidente?
Prima dell’elezione di Magufuli la situazione era surreale per molti aspetti: la maggior parte dei commercianti non pagava tasse, un’infinità di funzionari statali lavorava con falsi certificati, decine di container venivano sdoganati al porto di Dar es Salaam senza pagare tasse di importazione, ecc.
Il nuovo presidente ha preso di petto tutti questi problemi e sta cercando di risolverli. Il fine è buono ma sono un po’ perplesso dal metodo: molto autoritario, in primo luogo punitivo verso chi ha sbagliato. Questo ovviamente ha ripercussioni negative sull’economia che in questo periodo non cresce più come gli anni scorsi.
Quali sono le principali opportunità per lavorare in Tanzania?
La Tanzania resta un Paese in pieno sviluppo. Se devo indicare tre settori in cui si può lavorare in Tanzania dico: turismo (grande classico), energia e trasformazione agroalimentare.
Allo stesso tempo è sempre più difficile ottenere un visto di lavoro. Per questo, per lavorare in Tanzania, consiglio sempre di iniziare come expat per una ONG seria oppure per un’azienda internazionale per poi eventualmente capire quello che si può/vuole fare e lanciarsi con una propria iniziativa imprenditoriale.
Come (e dove) ti vedi tra dieci anni?
Bella domanda. Avendo un bimbo di appena un anno, forse sarò rientrato in Europa, soprattutto per poter dare a lui la possibilità di studiare adeguatamente. Ma mai dire mai 🙂
Un consiglio di un film per capire meglio il contesto?
Direi “l’incubo di Darwin” un documentario di qualche anno fa sulle connessioni tra investimenti europei, degradazione dell’ecosistema del lago Victoria, guerre e povertà. Suggerisco di guardarlo con occhi molto critici, perché vuole portare una certa tesi, e fa di tutto per dimostrarla. Per esempio tradurre le interviste fatte alla popolazione in maniera inaccurata e tendenziosa (ecco a cosa può servire sapere il Kiswahili!). Questo fatto deve far riflettere anche sulla correttezza di come si vuol far passare l’immagine dell’Africa nel resto del mondo.
E di un libro?
Mi è piaciuto molto “La Grande A” di Giulia Caminito. Romanzo uscito da poco che racconta una storia di una famiglia tra Africa dell’Est e Italia. Consigliato!