La fotografia e i territori dell’Altro

È risaputo che, per elevare la visibilità di un post in questi tempi di distrazione, è consigliabile includere una o più immagini: una bella fotografia aiuta a rallentare sguardi sempre più frettolosi.

C’è un problema: nella Community di Vadoinafrica spesso sono presentati progetti — non importa se imprenditoriali, non-profit o ibridi — che coinvolgono persone in condizioni di momentanea o permanente difficoltà. In questo caso il nostro bisogno di visibilità può contrastare con il diritto a una giusta rappresentazione dei soggetti.

Anche se a fin di bene, è sempre sbagliato rinchiudere gli esseri umani in categorie quali vittima, vulnerabile, povero, malato… o qualsiasi essa sia.

Non dimenticare mai che sei nei territori dell’Altro.

Inoltre, parlando di Africa, è sempre presente il rischio di perpetuare i soliti stereotipi sul continente: il continente dolorante e bisognoso di aiuto o il suo opposto, l’Africa felix sempre sorridente e danzante. Queste immagini rischiano poi di andare ad alimentare le crescenti polemiche e ideologie divisive su cui molti lucrano.

E invece la fotografia dovrebbe essere altro: uno strumento di unione, empatia, comprensione, con-passione, comunità… un rivelatore dello splendore umano — con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni — a disposizione di tutti.

Allora, pur se la fotografia non è certo il focus primario di questo blog, ho pensato di creare qualcosa a riguardo mostrando degli esempi pratici, con una breve descrizione del problema e di una possibile soluzione.

Io non lo so, vado a vedere.

Attraverso la fotografia racconto quel che vedo ma non so se sono titolato a parlarne. Sono autodidatta, non partecipo a festival o concorsi, non frequento i “giri che contano”, non mi appassionano le discussioni che le girano intorno.

Quando però si parla di progetti sociali posso dire di conoscere quel mondo. Non solo perché raccontarli è da molti anni la mia professione ma soprattutto perché sono stato un potenziale “soggetto” e so bene cosa vuol dire vivere nelle zone più basse della scala sociale.

In questo post — e nel libretto che puoi scaricare — ci sono solo considerazioni personali, semplici e molto pratiche (su cui alcuni potrebbero avere qualcosa da ridire), che nascono da lavori di tutti i tipi che includono anche decine di reportage su temi sociali particolarmente delicati. Queste linee guida per me hanno funzionato: non ho (quasi) mai avuto problemi con le persone fotografate.

Spero che ti interessino.

Quattro note preliminari.

  1. In questo post, se non “di striscio”, non parliamo di tecnica fotografica. è importante e utile padroneggiarla ma gli argomenti trattati sono indipendenti da essa.
  2. Per lo più qui mostro fotografie scattate in Etiopia ma, poiché queste considerazioni valgono a qualsiasi latitudine, troverai anche immagini prodotte in altre zone del mondo.
  3. Le immagini usate rientrano nel campo del reportage di viaggio, della fotografia sociale e, in parte, del fotogiornalismo. Per la fotografia pubblicitaria, corporate o di moda — o quando si lavora con modelli professionisti — le considerazioni da fare sono un po’ differenti.
  4. A parte questa immagine — con la mia piccola-grande assistente e che rappresenta la parole chiave che più frequentemente cerco nelle storie — nessuna delle fotografie pubblicate è staged e cioè artificialmente costruita.

Consenso: farsi riconoscere.

La mia regola #1: rendere sempre evidenti le proprie intenzioni per capire se le persone accettano di essere fotografate oppure no. Non serve un consenso scritto o formale: lo si può facilmente capire anche dall’espressione del volto, dai gesti e dal linguaggio corporeo.

E se il nostro soggetto esprime, in un qualunque modo, il suo desiderio di non essere ripreso, bisogna fermarsi. Punto.

La signora nella foto è una delle tante persone che vengono normalmente sfollate quando si decide di costruire un palazzone ad Addis Abeba. Prima di entrare nel mirino mi ha visto, io le ho fatto un cenno e lei mi ha risposto con un sorriso. Questa foto poteva essere fatta.

Consenso: non rubare.

Una delle frasi più famose di Robert Capa è:

Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino.

Sono d’accordo. Questa è la mia regola #2: quando si fotografa un essere umano non usare mai, mai e poi mai un teleobiettivo: in pratica, non “rubare” le immagini da lontano.

Purtroppo molti lo fanno. Facci caso quando guardi le fotografie di viaggio su un giornale o su un sito web. Quelle scattate da fotografi dilettanti (o da photographers professionisti pigri, frettolosi e paurosi) si riconoscono subito dalla mancanza di un qualsiasi tipo di relazione con le persone riprese.

Si tratta di foto inutili, estorte, che poco o nulla aggiungono alla comprensione del mondo.

PS. Praticamente tutti i reportage fotografici di Ayzoh! sono realizzati con obiettivi compresi tra 24 e 85 mm.

Consenso: leggi sulla privacy.

Come noterai, non menziono mai le leggi sulla privacy. Sono un po’ anarchico e non me ne curo molto: le considero come cavalli di Troia usati per introdurre una censura più o meno morbida.

Credo molto di più nell’autodisciplina.

PS1. Tutte queste considerazioni sul diritto delle persone a non farsi fotografare non valgono per i “cattivoni”, per le persone di potere e, in genere, per chiunque stia compiendo qualcosa di male nei confronti di chi è indifeso o comunque più debole.

PS2. Qui non prendo nemmeno in considerazione il consenso estorto pagando. Questo è un no-no-no. Sempre. Al limite, se la cultura locale lo consente, dopo aver realizzato le immagini, si può fare un regalo. Noi di Ayzoh! spesso regaliamo le stampe fotografiche (fatte sul posto con una piccola stampante a sublimazione o recapitate in seguito) oppure, a volte, qualcosa di più importante ma sempre legato al nostro lavoro.

Tutela dei soggetti: il dolore dell’Altro.

Nel mondo esistono guerra, povertà estrema, inaccettabili ma persistenti ingiustizie. Esiste il dolore, si sa. Ma serve mostrarlo? E, soprattutto, serve mostrare la sofferenza delle vittime? Serve esporre il loro volto?

Dipende. Dove il nostro sguardo può tentare di fare la differenza e dove esistono poche testimonianze dirette, ritengo che vada fatto. Anzi, credo che sia un dovere farlo.

Però, in molti altri casi — e cioè quando già esiste un’abbondante documentazione — non serve. In queste situazioni possiamo cavarcela con un po’ di fantasia.

Questo è un esempio di come ho scelto di mostrare il dolore. Si chiama The Loss e racconta, attraverso semplici oggetti, la storia di un uomo che ho incontrato durante la guerra di Bosnia la cui moglie è stata uccisa da un cecchino (serie realizzata per il Memorijalni Centar Srebrenica-Potočari).

Tutela dei soggetti: usare il simbolismo.

A volte basta guardarsi attorno per trovare soluzioni alternative: simboli, segni, qualsiasi cosa ci possa tornare utile per raccontare una storia.

Questa è un’immagine usata per la documentazione di un’operazione di peace-building per conto della Cooperazione Tedesca. Bisognava rappresentare la resilienza e il ritorno alla normalità di una piccola comunità Sidama senza però mettere in pericolo le persone esponendo i loro volti.

Quest’albero sembrava messo lì apposta per rappresentare il concetto di una casa ritrovata (non dovrei dirlo… ma la mucca perfettamente centrata è un colpo di fortuna).

Tutela dei soggetti: gesti e dettagli.

Attenzione ai gesti: a volte possono rivelare più di un volto e ci possono aiutare a non esporre l’identità delle persone senza per questo ridurre l’intensità emotiva di una storia.

In questa immagine siamo in una scuola elementare, per bambini provenienti da famiglie vulnerabili, durante un corso di musica tenuto dalla famosa arpista francese Claire DeFur.

Tutela dei soggetti: sapere aspettare.

Quando è assolutamente necessario mostrare le persone per descrivere un certo problema sociale (in questo caso un reportage sull’alcolismo) possiamo sempre cercare di non renderle riconoscibili senza per questo rinunciare a creare un’immagine drammatica o comunque utile per la nostra storia.

Qui ho dovuto aspettare almeno 10 minuti — sperando che quel simpatico uccello non si muovesse — in attesa che l’uomo (ubriaco) si girasse dall’altra parte. Mentre aspettavo, ho colto l’occasione per realizzare uno dei miei migliori ritratti (sopra).

Fotografia e medicina / 1

Nella community vadoinafrica vengono a volte presentati progetti legati alla medicina e alla sanità. Per ovvi motivi si tratta di un terreno minato ed è anche uno di quei campi dove la dignità delle persone viene più frequentemente calpestata… in Africa.

Nessuno si sognerebbe mai di pubblicare senza consenso immagini di persone sofferenti riprese in un ospedale occidentale. Ma in Africa (e anche in Asia e Sud America) si continua a farlo.

Allora, che fare quando dobbiamo comunque mostrare (per i donatori, i partner, le autorità locali, ecc.) i risultati di un progetto?

Facile: come nel caso di questa immagine possiamo tranquillamente mostrare i medici all’opera, le attrezzature e gli ambienti, proteggendo al massimo l’identità dei pazienti.

Fotografia e medicina / 2

Questa fotografia sembra contraddire ciò che ho scritto nella pagina precedente. La inserisco per evidenziare un punto a cui tengo molto: evitiamo ogni bigottismo e abituiamoci a valutare le singole situazioni senza manicheismi e senza cadere nella dittatura delle opinioni.

Siamo chiaramente in un ambiente medico ma questa foto racconta di una madre fiera di portare il figlio ai controlli di routine, di un pediatra orgoglioso del proprio lavoro e di un bambino in perfetta salute. Il tutto avviene in un ambiente che non ha nulla a che vedere con gli stereotipi e le solite immagini sulla sanità in Africa.

PS. Qui il nostro lavoro consisteva nel promuovere un innovativo sistema di assicurazione sanitaria, autogestito dalla comunità, ideato per ovviare ai costi proibitivi (per molti) della sanità privata.

Onorare la dignità del lavoro.

Oltre che nel campo del reportage, ho avuto la fortuna di lavorare anche per molte campagne pubblicitarie, sia per marchi e organizzazioni globali che per piccole startup, cooperative, imprese sociali, ecc.

Avere visto tante realtà differenti dall’interno aiuta a mettere a fuoco una cosa che dovrebbe essere ovvia: sia Prada che la minuscola impresa sociale agricola etiope (nell’immagine) non sarebbero nulla senza l’impegno di ogni loro singolo lavoratore.

Ad Ayzoh!, qualunque sia il progetto che supportiamo o che ci è stato commissionato, cerchiamo di non dimenticarlo mai: indipendentemente dal budget a disposizione, l’impegno che ci mettiamo è sempre lo stesso.

E, pur se non abbelliamo mai la realtà, cerchiamo di rappresentare ogni individuo al lavoro come se dovesse comparire sulla copertina di Vogue.

Stereotipi culturali vs individuo.

Quando attraverso le nostre fotografie, rappresentiamo un essere umano, ricordiamoci che, pur se è parte di una comunità, ogni individuo è un mondo a se stante e con una propria storia. Non cadiamo nella trappola del “loro qui” e “loro là” tanto cara a molti mass media.

In questo, forse, mi aiuta un po’ la mia storia.

La faccio breve: sono cresciuto nei vicoli di Genova e i miei amici erano figli di prostitute di tutti i colori, contrabbandieri, ex-carcerati e prossimi carcerati, bottegai, operai, marinai di ogni nazionalità, persone “normali”…

In mezzo a quel grande (e bellissimo) caos — che dall’esterno veniva guardato, anche con un po’ di disprezzo, come un corpo unico — ho imparato che ogni persona aveva una propria storia con delle caratteristiche che la rendevano speciale, nel bene e nel male. Il potere della fotografia è anche questo: svelare, in un attimo, l’unicità di ognuno di noi.

Nella foto sopra: un bimbo Rom in Transilvania.

Non bisogna dire tutto…

Questa è una delle mie foto più famose e vendute. Molti l’associano a un’idea di bellezza, grazia, calma, eleganza. Eppure questa donna, in quel momento, stava vivendo uno dei drammi più terribili che possono capitare a una madre.

Non ho mai raccontato pubblicamente tutta la storia e nemmeno la funzione attiva che ebbi in essa. Mai lo farò. Ho scattato la foto, l’ho conservata e ho aspettato di conoscere lo sviluppo della situazione. Dopo due settimane ho avuto la certezza che le cose erano andate nel migliore dei modi.

Solo allora l’ho pubblicata. Se la storia fosse andata nel verso più tragico, non l’avrei mai fatto.

…ma quel che si dice deve essere vero.

Questa, tra tutte quelle presentate, è l’unica fotografia di cui sono pentito. Fa parte di una campagna promozionale per una ONG e ha contribuito alla raccolta di molti soldi. Non è staged ma… quelle scatole sono vuote.

In pratica, qui il fotografo documentarista ha lasciato il posto al pubblicitario e abbiamo ingannato quei bambini. Sembrava un’idea “geniale” ma tuttora non me lo perdono.

La cosa è tanto più imperdonabile in quanto anch’io — che ho dovuto lasciare la scuola prestissimo e ho avuto la mia dose di problemi — per un certo periodo, sono stato un “ragazzino aiutato”. Mi ricordo perfettamente il senso di umiliazione che provavo quando arrivavano i “buoni” in pompa magna (una confraternita religiosa di Genova) con le loro piccole donazioni.

Non è vero che il fine giustifica i mezzi: ci sono volte in cui è necessario saper dire dei grandi “no”. Non ho più fatto lavori simili.

Non bisogna pubblicare tutto / 1

Questa immagine è parte di un reportage sui danni provocati dal turismo di massa nei confronti delle popolazioni dell’Omo Valley.

E’ potente e sono fiero di averla fatta. Però, in fase di editing, abbiamo scelto di non pubblicarla perché avrebbe chiaramente e pesantemente offeso la dignità del bimbo Surma…

Non bisogna pubblicare tutto / 2

…abbiamo invece scelto di pubblicare questa con il bimbo che esprime tutta la fierezza del suo popolo. In questa immagine non è più visto come vittima ma come resistente. E chi conosce la vera situazione di quella regione sa che questa è la versione più aderente alla realtà dei fatti.

Questo esempio mostra come, a parità di soggetto o luogo , è facile orientare il giudizio — in una direzione o nel suo esatto opposto — su un particolare tema o gruppo etnico.

Entrare dentro le storie: gli occhi.

Quante volte ti è capitato di immortalare una situazione (per voi) eccezionale per poi renderti conto — quando l’immagine è finalmente su un monitor o su carta — che il risultato è completamente diverso da ciò che ti ricordavi di aver visto?

Vuol dire che non eri abbastanza “dentro” all’azione e questo è l’errore più comune commesso dai fotografi dilettanti (e anche da molti professionisti): restare lontano, timorosi, impalati come stoccafissi…

Come si può raccontare l’Altro se non si fa nulla per conoscerlo meglio?

Allora, stabilite una relazione con i soggetti, fatevi accettare e — nello stesso tempo — dimenticare, andate vicino, abbassatevi a livello degli occhi di un ipotetico spettatore e, magicamente, tutto cambierà.

Nella foto sopra: Sonia, la nostra collaboratrice etiope-cubana in Omo Valley, con tre bimbi Hamer durante uno dei viaggi organizzati da Ayzoh!

Entrare dentro le storie: la prospettiva.

Qui c’è un altro esempio di come può essere semplice, soprattutto con le fotocamere moderne (vedi la nota sotto), condurre gli spettatori dentro la scena. Il focus è sempre sugli occhi: a volte basta spostarsi di pochi passi per mettersi in linea con essi e fare la differenza tra un’immagine banale e una memorabile.

Nella foto sopra una ragazza del Blein Center Football Team, il più forte di Hawassa. La squadra è parzialmente sponsorizzata dalla AS Roma.

PS. Non ci sono scuse tecniche che tengono per non fare una fotografia come questa. Qualsiasi fotocamera moderna — dal valore pari o superiore a 500 euro — è in grado di farla.

Entrare dentro le storie… sì, ma…

Ecco, magari non fare proprio come me e non esagerare… Notare che, nonostante la precipitosa fuga, non ho rinunciato a scattare la fotografia. Qui è intervenuta la regola #3: il lavoro si deve sempre portare a casa…

PS. Lo so, il mosso è imperdonabile… sorry.

Positivo vs negativo: esaminare la situazione.

Le sfighe fanno audience, anche sui social. E sono anche facili da trovare, quando uno ci si mette.

Qui stavo lavorando per un progetto della Cooperazione Italiana, a Konso: in questa foto (e in quella precedente) si vede una scuola pubblica che, evidentemente, non rappresenta il massimo della qualità scolastica che andrebbe offerta ad ogni studente.

Però… avevo visto con i miei occhi quanto impegno il personale scolastico e le autorità locali ci stavano mettendo per migliorare le cose e per sopperire ai pochi fondi che avevano a disposizione.

Sapendo questo, chi ero io per vanificare i loro sforzi e minare il loro morale, sputtanandoli in tutto il mondo con un’immagine di qualcosa che a breve, forse, sarebbe cambiato in meglio?

Positivo vs negativo: scegliere.

La fotografia (di reportage) non è mai neutrale: dobbiamo sempre prendere una posizione.

Nel caso della scuola di Konso ho deciso di fidarmi delle parole ascoltate e della visione del futuro prospettata dalle persone con cui ho parlato (in seguito i fatti mi hanno dato ragione).

Ho scelto di pubblicare questa foto (e altre simili). Siamo solo a pochi passi (circa 10 metri) dai locali mostrati nelle due immagini precedenti ma la percezione delle cose cambia radicalmente.

Ricordatelo quando guardi un reportage su qualcosa o qualcuno: la fotografia non dice mai tutta la verità. Ciò che viene mostrato è sempre una scelta, parziale, del fotografo o del photo-editor.

Anche così si fa politica.

Positivo vs negativo: non esporre le persone alla pubblica gogna.

Questa immagine fa parte di un reportage sulle storture di un certo modo di fare volontariato e mostra una volontaria svedese che fa giocare una bimba all’interno di un centro per famiglie svantaggiate e a rischio di esclusione sociale.

Qui, oltre alla bimba, ho volutamente scelto di tutelare anche l’identità della giovane volontaria: faceva parte di un sistema sbagliato ma era totalmente in buona fede e animata dalle più nobili intenzioni.

Esporla, oltre che inutile per lo svolgimento della storia, sarebbe stata una carognata del tutto gratuita.

L’album di famiglia / 1

Qualunque sia la situazione, qualsiasi sia il soggetto, soprattutto nel caso dei minori, chiediamoci: e se fosse mio figlio? Vorrei rappresentarlo in questo modo?

Nella foto di sinistra, Mattia, uno dei miei figli norvegesi. A destra, un bimbo etiope: l’immagine è stata usata per la promozione di una piccola organizzazione locale.

L’album di famiglia / 2

Ovviamente non vanno tutelati solo i minori: al posto della parola “figlio/a” usiamo anche sorella, moglie, marito, padre, madre, nonno…

Qui siamo nell’isola di Hvaler, in Norvegia, e lei è Mette — ex moglie, madre dei miei figli e grande amica — ritratta in un periodo in cui stava uscendo da un momento in po’ delicato.

Qui sopra invece c’è Marta, ritratta a Hawassa. Lei usciva da una situazione decisamente difficile e ha fortemente voluto che questa fotografia fosse usata per un progetto a favore di un gruppo di donne.

Era fiera di poter offrire la propria immagine per dare forza e coraggio alle sue, così le chiamava, “sorelle”.

PS. So perfettamente che, in termini di condizioni materiali e opportunità, c’è un abisso tra le due situazioni. Per me non cambia nulla. Chiunque mi offra l’onore di aprirsi sinceramente e di spendere un po’ di tempo con me entra di diritto nella mia “famiglia fotografica”.

Tabù culturali e paure / 1

Ritengo che non esistono soggetti “non fotografabili”. Esiste solo la pigrizia di fotografi che cadono nei cliché dettati dal pietismo o dal suo opposto, il sensazionalismo.

Esiste anche — come nel caso della disabilità o della malattia mentale — la paura di abbandonare la nostra comfort zone per entrare in un mondo, per noi, sconosciuto.

Ma, qualunque sia quel mondo, qualsiasi sia la situazione, c’è sempre un modo di farci guidare — da chi davvero in quel mondo ci vive e non dai nostri pregiudizi — per tentare di raccontarlo. Le parole chiave sono sempre le stesse: incontro e (genuina) relazione con l’Altro.

Senza di esse c’è il rischio di cadere nella banalizzazione, nell’offesa o — al contrario — in una rappresentazione mielosa, magari in linea con il “politicamente corretto” ma comunque incapace di addentrarsi in certi territori.

Tabù culturali e paure / 2

In certe situazioni non dobbiamo far finta che vada tutto bene: anziché cercare di camuffarla, è sempre meglio affrontare la realtà evitando di costruire un racconto falso, ipocrita o forzatamente allegro.

L’importante è riconoscere, senza filtri, l’identità di chi abbiamo di fronte, relazionandoci — se possibile (a volte non lo è) — direttamente con lui/lei.

Nella foto sopra: ritratto di una “Irmandade da Boa Morte”, commissionato dalla confraternita stessa, a Maragojipe, Bahia.

Usare la tecnica a nostro vantaggio.

Affrontare la tecnica fotografica non è tra gli scopi di questo post. Ne faccio solo un breve cenno qui per dimostrare come un minimo di padronanza delle luci e delle ombre (e della composizione) ci può aiutare a cavarcela in situazioni un po’ delicate.

L’immagine è stata realizzata in un hotel/bordello durante un reportage sulle condizioni di sfruttamento sessuale che affliggono molte operatrici del settore turistico. Questa foto è stata usata anche per una campagna dell’Unesco.

…ma non tarocchiamo le immagini.

Questa immagine rende bene uno degli aspetti più caratterizzanti e affascinanti della cultura etiope: il saluto. Ma quanto fastidio danno quei fili della luce e, soprattutto, la punta del palo che spunta accanto all’occhio destro della donna?

Con i software a nostra disposizione sarebbe stato veramente facile eliminare questi intrusi e vi assicuro che nessun occhio umano se ne accorgerebbe (ma forse potrebbe farlo un programma di scomposizione delle stringhe numeriche).

Abbiamo deciso di lasciarli al loro posto perché — più che produrre una foto (falsamente) perfetta — riteniamo importante non tradire la fiducia di chi la guarda.

Post produzione: qual è il limite?

Come abbiamo detto, i software che usiamo rendono possibile qualsiasi tipo di manipolazione. E allora, fino a che punto ci si può spingere?

Noi di Ayzoh! ci atteniamo a una sola regola: non aggiungere o togliere nulla. E questo vale anche per certi “difetti” nei volti delle persone.

Per il resto non siamo “puristi”: se necessario e in base alle fotocamere utilizzate (ognuno dei nostri brand — Canon, Leica e Fujifilm — ha una sua “firma” con le proprie particolarità), applichiamo correzioni cromatiche, aggiustamenti del contrasto, regolazioni di luci/ombre, conversione dal colore al monocromatico e tagli.

Ciò non vuol dire che le nostre immagini raccontano tutta la “verità”. Nessuna fotografia lo fa: abbiamo visto che basta inquadrare una scena da un certo angolo piuttosto che da un altro per modificare totalmente il senso di una storia.

Nella foto: Capture One all’opera (file Fujifilm).

Collaborare e condividere.

A nessuno piace essere solo un (s)oggetto passivo all’interno di un progetto gestito da altri. Se possibile, è sempre meglio far sì che le persone diventino parte attiva nella realizzazione della storia che le vede protagoniste.

Qui siamo all’interno di un carcere per la promozione di un’impresa sociale gestita dagli stessi “ospiti” della struttura: insieme a loro, stiamo scegliendo le fotografie da utilizzare nelle varie pubblicazioni e campagne che avremmo poi creato. Grazie a questa iniziativa i carcerati possono ovviare alle necessità delle proprie famiglie, oltre che di se stessi, nel periodo di forzata assenza da casa.

PS. Seble e io siamo tra i pochissimi che sono riusciti a entrare (più o meno legalmente…) con le fotocamere dentro una prigione etiope.

Fare un passo indietro.

Ci sono storie così estreme che sono impossibili da raccontare senza avere davvero un’esperienza diretta. In certe situazioni è meglio fare un passo indietro e lasciare tutto in mano ai protagonisti.

Qui stavamo lavorando con un gruppo di ex bambini di strada. Ognuno di loro aveva una storia terribile alle spalle.

Li abbiamo insegnato a costruire 25 fotocamere stenopeiche di cartone (una tecnica fotografica vecchia di 200 anni che, per via dei suoi limiti, avrebbe reso quasi del tutto irriconoscibili i volti), a usarle, a sviluppare le foto e a stamparle.

In seguito ognuno di loro — così come sta facendo la bimba nella foto — ha scelto cosa mostrare per raccontare il proprio mondo. Nella foto qui sopra si vede il risultato (la sua storia si può facilmente intuire).

Non feticizziamo l’Altro…

Per feticizzazione razziale si intende:

la tendenza a sessualizzare ed esotizzare i corpi di persone appartenenti a gruppi etnici e culture diverse dalla propria.

Questo è un concetto che i “bianchi” fanno fatica a capire e, soprattutto, a spiegare: la miglior cosa che possiamo fare è quindi ascoltare chi il problema lo vive direttamente e quotidianamente.

Nella foto, Seble — l’antropologa Surma di Ayzoh! — che mi ha fatto capire il concetto un po’ con le buone e un po’ con le cattive…

PS. Per saperne di più su questo argomento, vi rimando a un eccellente articolo pubblicato da Vice.

… ma non diventiamo paranoici.

La madre di tutte le paranoie: fotografare i bambini. Usarli per perpetuare certi stereotipi sull’Africa è un qualcosa che viene spesso rinfacciato ai “bianchi”.

E in effetti molte immagini — condivise dai turisti o usate da certe ONG — gridano davvero vendetta.

Che fare per evitare di diventare inutilmente paranoici come nella tristissima Europa?

Intanto, per evitare polemiche ed equivoci, cerco di non farmi fotografare insieme a bimbi sconosciuti, anche quando sono loro a chiederlo.

Per il resto applico le solite regole: cercare il consenso (stabilendo una relazione con i genitori o con la comunità), spiegare cosa si sta facendo e il perché.

E poi, come già detto più sopra, cerco di immaginarli da adulti, mentre guardano le mie fotografie. Pur senza mistificare la realtà che vivono oggi, voglio che siano fieri (o positivamente divertiti) di ciò che vedranno.

Dare e avere.

Molti popoli credevano che la fotografia rubasse l’anima delle persone. E, in un certo senso, è vero: quando fotografiamo qualcuno prendiamo sempre qualcosa del suo mondo e lo portiamo via con noi.

Susan Sontag, nel libro Sulla fotografia afferma:

fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere.

Allora, se possibile, proviamo sempre a restituire più di quel che prendiamo. Noi di Ayzoh! normalmente lasciamo qualcosa di utile — pubblicazioni, siti web, stampe — creato ad hoc per promuovere e/o supportare mediaticamente un progetto realizzato all’interno della comunità che ci ha aiutato a svolgere il nostro lavoro.

Nella foto: Seble con una bimba Hamer.

L’ironia.

Michele Smargiassi, giornalista e critico fotografico di La Repubblica, a riguardo di una fotografia di Gianni Berengo Gardin, ha scritto:

Non c’è nulla di più umano dell’ironia.

Ecco, anche quando affrontiamo temi seri e importanti, ricordiamocene.

Questa è un’immagine tratta da un reportage sulla convivenza religiosa in Etiopia. Il marito (musulmano, a sinistra) sta chiedendo ad Allah cosa abbia mai fatto di così male per meritarsi una moglie (cristiano-ortodossa, a destra) tanto dispotica… Ayzoh!

PS. Ayzoh è una parola che in amarico — la lingua ufficiale dell’Etiopia — a seconda della situazione, può significare va bene o andrà tutto bene o spero che non ti sia fatto male o non preoccuparti o forza! o coraggio!.

Non la verità, che forse non possiede, ma l’utilità di una fotografia per la società, cioè la sua capacità di fornirci delle informazioni utili a farci una idea del mondo, sta da qualche parte lungo un percorso che va dall’evento al lettore passando per un osservatore, una tecnologia, un canale.

Le fotografie possono renderci un servizio se, evitando loro il baratro dell’insignificanza e la retorica dell’altare, le assumiamo come relazioni di scambio con cui gli esseri umani cercano di raggiungere una qualche conclusione sufficientemente accettabile sul mondo in cui vivono.

Non pretendiamo di più.

Michele Smargiassi / Fotocrazia

Ayzoh! è un centro di fotografia documentaria e progettazione editoriale che lavora al fianco — e ne supporta i progetti sociali, culturali e imprenditoriali — dei costruttori di comunità: chi crea unità e non divisione, cooperazione e non competizione, dialogo e non discussione, diversità e non omologazione | Website | Facebook

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