Post di John-Paul Iwuoha, fondatore di Smallstarter, tradotto e ripubblicato dall’originale con il consenso dell’autore.
Fino all’età di 9 anni, Henri Nyakarundi non sapeva neanche di essere un rifugiato.
La sua famiglia aveva lasciato il Rwanda per fuggire in Burundi dopo le tensioni precedenti al genocidio del 1994.
Fin da piccolo, Henri fantasticava di rincorrere il “sogno americano“. Gli USA come un biglietto della lotteria per cui valeva la pena sacrificare tutto il resto. Insomma, voleva lasciare l’Africa il più alla svelta possibile.
Nel 1996, poco dopo il termine delle superiori, arrivò l’opportunità tanto attesa: un visto per gli USA. Pochi mesi dopo stava volando verso la terra dei suoi sogni.
Ventitré anni dopo…
Henri mi contatta per presentarmi la sua autobiografia: My African Dream. Avevo già sentito il suo nome, ma non sapevo cosa aspettarmi dal libro. Mi sono messo a sfogliarlo alle 22:30 e sono ci sono rimasto incollato fino alle due di notte!
Dopo aver vissuto dieci anni in America – in cui è passato dal carcere alla vita di strada sino a costruire un’impresa di successo nei trasporti – Henri ha fatto i bagagli per rientrare in Africa come imprenditore.
Perché lasciare gli USA, soprattutto dopo aver assaporato l’elusivo sogno americano? Nel suo libro, Henri fornisce un resoconto di come ha inseguito, raggiunto, e alla fine barattato quanto desiderava da bambino per un sogno africano capace di spiazzarlo da adulto.
Da quando è rientrato in Africa, Henri ha lanciato ARED, impresa tecnologica di base in Rwanda, un paese che – proprio come lui – è risorto dalle ceneri per diventare una stimolante storia africana di successo.
In questa intervista, Henri ripercorre le più importanti lezioni del suo percorso di vita e fornisce preziosi consigli per aprire gli occhi a chi cerca di avere successo nel continente.
Credo sia una delle migliori interviste che ho fatto da tanto tempo.
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Da giovane volevi a tutti i costi lasciare l’Africa per inseguire il “sogno americano”. Come è andata?
Questa è la premessa chiave del mio libro. Da giovane ero molto ingenuo riguardo a cosa fossero gli USA, che a conti fatti è stato il Paese più difficile in cui abbia mai vissuto.
Cresciuto in Burundi, il mio spettacolo TV preferito era “il Principe di Bel Air” con Will Smith. In buona fede credevo che tutti gli americani vivessero così. Quando sono arrivato ad Atlanta e ho visto per la prima volta un senzatetto ho chiamato mia madre: ero davvero scioccato.
Ho faticato molto negli Stati Uniti – a un certo punto sono rimasto senza casa e ho passato due giorni in prigione – ma ho anche imparato molto. Sono andato lì che ero un ragazzo e sono diventato un uomo. Tutte le sfide che ho dovuto affrontare mi hanno reso quello che sono oggi.
Ma la lezione fondamentale che ho imparato vivendo negli States è che ovunque tu vada, troverai delle sfide; possono essere diverse ma nessun luogo al mondo è perfetto.
Ad esempio, sono rimasto sconvolto dai problemi razziali che esistono negli Stati Uniti. Ma non ho mai smesso di lottare per il mio sogno di diventare un imprenditore. Ci ho messo dieci anni per costruire la mia prima attività di successo, ma ancora non ero soddisfatto.
Tanti giovani africani sognano di lasciare il continente verso “pascoli più verdi”. Si può invertire la tendenza?
Credo che abbiamo bisogno di condividere più narrazioni positive: noi africani dobbiamo controllare maggiormente la nostra immagine per condividere storie di altro tipo in Africa.
I social media sono un punto di svolta cruciale: i mass-media infatti non controllano più l’intero flusso informativo. Possiamo far girare più storie di successo africane, e questo sta infatti succedendo.
Ricordo che quando ho deciso di tornare in Africa le news che vedevo in TV mi facevano spesso dubitare della mia decisione. Più di una volta, dopo le news, telefonavo ad amici e parenti a Bujumbura o Kigali. Invariabilmente mi sentivo dire:
non preoccuparti, stanno esagerando.
Quando sono tornato, i miei amici americani hanno iniziato a chiedermi la stessa cosa. E mi sono reso conto di quanto i media abbiano creato una sorta di “afrofobia” che, purtroppo, ci troviamo addirittura a comprare a caro prezzo.
Diamo troppa credibilità ai media internazionali, invece di concentrarci sul rafforzare canali mediatici dal continente.
La seconda cosa che direi è che alcune persone della diaspora africana diffondono queste visioni negative per scoraggiare altri dal tornare indietro. Non sono sicuro del perchè lo facciano. Ma ricordo bene quando ho condiviso la mia decisione con gli amici: diversi hanno avuto una reazione negativa, forse è una questione di proiettare la propria paura agli altri… chissà.
Se hai trascorso più di dieci anni in un altro continente è difficile a fare le valigie e tornare in un posto che una volta chiamavamo casa. Le incognite e l’incertezza sono certamente un deterrente.
Di tutte le opportunità che hai visto in Africa, perché hai scelto il fotovoltaico?
Quando ho deciso di investire in Rwanda, ho analizzato i due settori che ritengo i più interessanti in assoluto: quello agroalimentare e l’energia solare.
Ho trovato più applicazioni intorno al tema della tecnologia fotovoltaica. ARED non è un’azienda di energia in senso stretto: siamo una società tecnologica a scopo sociale. Tuttavia, vogliamo portare la tecnologia in aree a basso reddito come le campagne o le periferia in cui c’è necessità di energia: questa è la componente energetica del nostro business.
Di solito, si sviluppa una soluzione per risolvere un problema. Noi siamo stati la prima azienda a realizzare un chiosco solare come punto unico per ricaricare cellulari, vendere servizi digitali e fornire WiFi.

(ph: startsomegood.com)
Credo che la più grande opportunità di business africana, oltre al settore agroalimentare, sia la connettività. E questo è il nostro attuale obiettivo.
Allo stesso tempo, osservando il riscaldamento globale, credo che l’accesso all’acqua pulita diventerà la più grande sfida per l’umanità.
Quali sono state le maggiori sfide che hai dovuto affrontare nel fare impresa?
Ho dovuto affrontare tre grandi sfide.
La prima: reperire collaboratori nel settore software. Questa è tuttora la più grande difficoltà.
Continuiamo a esternalizzare lo sviluppo dei nostri prodotti all’estero, a causa della mancanza di competenze in loco. Il pool di talenti è troppo piccolo rispetto all’enorme domanda e, come conseguenza, gli sviluppatori esperti in loco sono estremamente costosi.
Abbiamo i cervelli e la manodopera per colmare questa lacuna ma, sfortunatamente, la maggior parte dei governi africani non investono sufficienti risorse per sviluppare il capitale umano. Se guardi la Cina, ad esempio, un’alta percentuale del loro PIL è stata investita nello sviluppo di ingegneri e, 30 anni dopo, esporta tecnologia in tutto il mondo.
La seconda sfida è l’accesso alla finanza. La cultura dell’innovazione è relativamente nuova nel continente, ma resto stupito che nessun governo in Africa Orientale fornisca alcun sussidio per sostenere la ricerca e lo sviluppo delle proprie imprese.
L’accesso a finanziamenti è ancora solo una lontana conversazione. L’ecosistema locale è molto povero e si finisce per indebitarsi per costruire startup, che è la soluzione peggiore. La maggior parte del supporto a imprenditori che si trova nel continente è finanziato da Paesi stranieri e molte di questi programmi non sono realmente pensate per le necessità degli innovatori locali.
L’ultima sfida è la fiscalità, inadeguata per una startup.
Com’è possibile che una piccola impresa abbia lo stesso livello di tassazione sul lavoro di una grande azienda? Nella maggior parte dei Paesi africani, abbiamo leggi fiscali punitive che si concentrano sulla raccolta senza lasciare il tempo alle nuove imprese di prosperare.
Si potrebbe massimizzare l’impatto del settore informale con una fiscalità più progressiva. Ma oggi come oggi abbiamo adottato leggi fiscali straniere ai contesti africani e questo non può funzionare.
Qual è il feedback più inaspettato che hai ricevuto dal mercato?
Il riscontro più pazzesco che ho avuto è che… sarei stato ucciso perché alcuni non potevano credere che abbiamo sviluppato noi la nostra tecnologia.
Mi è stato detto, e cito:
l’uomo bianco ti ucciderà se lo scopriranno.
Altri pensavano che il prodotto provenisse dalla Cina. Tanti altri non credevano che avremmo potuto sviluppare qualcosa di così avanzato in Africa.
La mentalità negativa e la sfiducia verso se stessi sono le maggiori sfide che l’Africa deve affrontare per poter prosperare.
Continuiamo a importare esperti dall’estero. Continuiamo ad andare all’estero per controlli medici. Finché non creeremo la fiducia e l’orgoglio nei nostri cittadini, non saremo in grado di ottenere una vera indipendenza.
Voglio chiarire che non tutti i feedback ricevuti sono stati negativi. In tanti apprezzano il nostro lavoro e ci incoraggiano a proseguire.


Se dovessi tornare indietro nel tuo percorso imprenditoriale cosa cambieresti?
Il mio percorso imprenditoriale è iniziato quando avevo 14 anni. Rivendevo oggetti usati ai miei amici. Una volta ho ceduto, ad un prezzo più alto, una bici che mio padre mi aveva comprato. Gli ho dato i soldi e ho tenuto la differenza.
Sono sempre stato solito “trafficare” ma ho iniziato a prendere sul serio questo discorso quando sono arrivato negli USA. Ricordo di aver letto Pensa e arricchisci te stesso, un libro che ha cambiato la mia prospettiva.
Ero cresciuto con lo stesso orientamento della maggior parte dei bambini africani: l’educazione accademica è la chiave del successo. Vado a scuola, prendo buoni voti, mi laureo, trovo un lavoro che tengo sino alla pensione. Ma ho scoperto che non faceva per me.
Se devo essere onesto non cambierei nulla. Se sono diventato bravo col tempo è solo a causa dei tanti fallimenti che ho attraversato e che mi hanno reso la persona che sono oggi.
All’inizio credevo che essere imprenditori significasse diventare ricchi e fare soldi. Più tardi ho capito che si tratta di risolvere problemi.
Pensavo esistesse una scorciatoia per il successo, dedicandomi ad attività per arricchirmi rapidamente: investi X e ottieni il triplo in una settimana. Dopo aver perso parecchio denaro, mi sono svegliato diventando più intelligente.
Sbagliare è stata la chiave del mio successo.


Cosa consigli a un imprenditore che vuole avviare un’attività in Africa?
Pazienza. Anche se l’Africa è la terra delle opportunità, i vecchi modi sono ancora radicati. Politica, corruzione in alcuni Paesi, convinzione che solo l’Occidente possa aiutare l’Africa.
La maggior parte dei giovani della diaspora che ritornano Africa per cavalcare la cosiddetta “nuova ondata di opportunità” sono spesso delusi perchè, sul terreno, le cose non si muovono ancora come dovrebbero.
Ma la chiave è essere pazienti: per costruire un’impresa devi iniziare dalle fondamenta. Correre non ti porterà lontano ma solo stress e frustrazione.
Hai bisogno di una licenza e non arriva? Fai un respiro profondo e lavora in modo intelligente. L’Africa è una ruota lenta da girare, quindi devi stare attento a non lasciare che la tua impazienza vinca sul tuo progetto.
Che dire a chi sostiene che non c’è nessun sogno africano?
Di solito non spreco le mie energie a convincere qualcuno. Se devo proprio rispondere, gli direi di guardare i dati e come il mondo intero sta lottando per ottenere un pezzetto della torta africana.
Cinesi, americani ed europei lottano per influenza, risorse e quote di mercato in Africa.
In pochi decenni l’Africa sarà un mercato da 2 miliardi di persone e in ogni angolo del continente stanno nascendo nuove imprese con idee brillanti per risolvere i problemi chiave.
Otto tra le prime 10 economie in più rapida crescita si trovano in Africa. Il continente è uno dei pochissimi luoghi in cui è possibile avere un ritorno del 10% annuo su un conto deposito. Negli USA o in Europa oggi sei fortunato se ti danno l’1%!
Il problema è che noi africani non controlliamo la nostra narrativa e le nostre storie di successo non ricevono tanta pubblicità quanto le vicende negative. E la parte peggiore è che noi africani interiorizziamo questa narrativa negativa perpetuando il ciclo.
La parte triste è che molti a non credere nel potenziale africano sono gli stessi africani.
Da anni seguo come mentor alcune startup africane, e posso dire di aver visto le idee più sorprendenti e le giovani menti più brillanti del mondo. Il sogno africano è molto vivo.
Come ex rifugiato fuori dal Rwanda per tanti anni, come ti senti riguardo al nuovo status di successo del Paese?
Per prima cosa posso dire che è bello avere un luogo che puoi davvero chiamare casa. Per tanto tempo non me ne sono reso conto.
Intendo dire, non sono cresciuto come il tradizionale rifugiato che si vede nei media. Piuttosto la mia è stata un’adolescenza da ceto medio frequentando una scuola privata in Burundi.
Ricordo chiaramente quando ho scoperto che eravamo rifugiati: avrò avuto 9 anni e stavamo andando a trovare alcuni parenti a Nairobi. Abbiamo dovuto trascorrere ore in aeroporto perchè, con passaporto UNHCR, qualcuno doveva firmare i documenti come garante che avremmo lasciato il Paese entro due settimane.
La prima volta che tornai in Rwanda fu nel ’96, due anni dopo il genocidio, e il paese era ancora allo sbando. Sono stato lì solo per un mese, poi sono partito per gli States.
La seconda volta che ho avuto la possibilità di ritornare è stato nel 2001, e il Paese stava iniziando a trasformarsi.
La terza volta era nel 2008, e Kigali era completamente cambiata. Era appena stato aperto lo sportello unico per registrare una società. Ai tempi ci volevano 48 ore. Oggi ne bastano 4!
Fu in quel momento che mi resi conto che era tempo per me di rientrare in Africa. La crescita del Rwanda mi ha portato in primo luogo ad un rinnovato orgoglio di essere ruandese.
Non eravamo più solo definiti dal nostro passato e dal genocidio del ’94 contro i Tutsi, ora siamo diventati un Paese di destinazione, uno dei Paesi più sicuri e puliti del continente, che costruisce il più grande centro congressi della regione, ecc.
In secondo luogo mi sono convinto che l’Africa sia capace di raggiungere la grandezza senza l’aiuto e le risorse altrui. Dopo il genocidio, nessuno avrebbe scommesso che il Rwanda sarebbe risorto dalle ceneri, me compreso.
Quando ho lasciato i Grandi Laghi, avevo già deciso che non sarei mai più tornato. Eppure l’ho fatto e credo che la chiave per l’ascesa dell’Africa sia semplice: abbiamo bisogno di una grande leadership.
L’Africa ha bisogno di persone con una visione e un profondo amore per il loro paese, senza interessi egoistici. Sono contento di vedere che oggi i giovani africani stanno iniziando a chiederlo esplicitamente.
Su quali canali sei più attivo. Come contattarti?
È molto facile raggiungermi. Sono disponibile come Henri Nyakarundi su Facebook, Twitter, LinkedIn e Instagram.
Su YouTube, carico video approfonditi per insegnare ai giovani imprenditori le strategie chiave per espandersi nel continente, raccogliere fondi e molto altro.
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